ALESSANDRO TUTINO – Professore Emerito di Pianificazione Urbanistica
"Questioni di strategia" se volete farmi la cortesia di correggere il pieghevole. È un piccolissimo errore, ma comporta una sfumatura di significato diversa, vale la pena di correggerlo.
Il mio tema è di natura teorica e metodologica, purtroppo, mi dispiace, l’abbiamo scelto così; quindi propedeutico rispetto alle trattazioni riguardanti indirettamente la Variante del Piano Regolatore generale di Verona. Però se lo propongo è perché penso che abbia un’attinenza molto stretta con la Variante. Ritengo che considerazioni su strategia del Piano e strategia della Pubblica Amministrazione siano utili o addirittura indispensabili per consentire la comprensione, quindi la condivisione da parte dei cittadini, delle scelte relative all’uso del territorio. Un Piano che non ottiene condivisione parte molto male, ha le gambe corte.
Io vorrei partire da una constatazione che mi auguro sia condivisa, sennò la discuteremo, ossia che il Piano Regolatore Generale, come strumento principe della pianificazione, stia soffrendo da qualche tempo un processo di banalizzazione, di burocratizzazione diciamo meglio. Come tutti gli atti ripetitivi, anche il Piano Regolatore Generale è soggetto ad un deterioramento, quindi ad una banalizzazione. La frequenza dei rifacimenti, la frequenza del ricorso alle varianti parziali soprattutto, che di per sé è naturalissima e compatibile quando viene correttamente applicata, induce facilmente alla sensazione che il Piano sia uno strumento superato o superabile, sempre troppo rigido rispetto alla necessità di continui aggiustamenti e rispetto al sogno di ogni amministratore di poter scegliere ogni giorno con responsabilità, magari speriamo, ma con libertà il Piano diventa così, in un’accezione molto diffusa, un fastidioso adempimento burocratico fatto di contabilità, verifiche, standard, nuove aree da dare in pasto alle costruzioni, all’industria edilizia. Ma pianificare è un’altra cosa. Pianificare è progettare il futuro. È un’attività connaturata nella natura umana, è il perenne tentativo di assicurare un futuro migliore. È un sogno collettivo.
Allora come può un sogno ridursi ad un adempimento burocratico? Io non credo che sia solo così, che sia solo una questione di banalizzazione per abuso di piani, per troppa assuefazione. Credo che dobbiamo indagare un po’ più a fondo in questo processo per capirne le ragioni e per capire i legami con le trasformazioni che riguardano più in generale l’azione della Pubblica Amministrazione, le politiche, e che ci porta a parlare di questioni di strategia. Osserviamo per esempio che nel corso di pochi decenni sono diventate sempre più schematiche e neutre le relazioni dei piani, in qualche caso addirittura scompaiono. Così pure diventano trascurati o neutri quei documenti preliminari che per un lungo periodo recente erano diventati un terreno molto fertile e promettente di definizione delle strategie. Sono strumenti che la procedura burocratica di controllo probabilmente non guarda neanche, gli interessa pochissimo, ma che viceversa nel rapporto con gli amministrati, con gli elettori sono fondamentali, sono insostituibili. Si tratta di documenti dove dovrebbero essere dichiarati gli obiettivi politici e le scelte territoriali che si adottano per conseguirli, ed è solo così che la popolazione può capire se gli obiettivi sono coerenti con il mandato elettorale e se le scelte del Piano sono coerenti con gli obiettivi. Dunque, solo così può condividere e se necessario difendere o contestare la destinazione delle risorse pubbliche ed i singoli provvedimenti, i singoli dispositivi di un Piano. È solo questo il terreno sul quale è lecito promuovere e richiedere la tanto invocata partecipazione.
Si insinua allora a questo punto il dubbio che il deterioramento non sia quindi del Piano per assuefazione, ma sia della politica per progressiva diluizione dei caratteri. Ne abbiamo un risconto nell’opinione pubblica quando diserta o va sempre meno numerosa a votare, oppure quando si diffonde la versione qualunquista dei partiti e delle Amministrazioni che sarebbero tutti uguali a dispetto del colore. Tutti i gatti sono bigi, il bianco, il rosso, il nero sono un ricordo di tempi andati. È colpa della fine delle ideologie? Se questa fosse la conclusione, sarebbe una conclusione ingiustificata, a mio parere, arbitraria, disfattista, rinunciataria. Così arriviamo ancora più dentro alle questioni di strategie, una parola che non a caso da tempo è in disuso. Tra parentesi noto con grande soddisfazione che Verona ha recuperato dal letargo il termine "strategia" e ha, come ci ha appena raccontato il Sindaco e, come ha potuto verificare anche partecipando ad alcune riunioni di questi tavoli del Piano Strategico, ha affrontato molto positivamente, con molta determinazione questo problema: il recupero di una visione strategica. Tutto bene e va benissimo come viene portato avanti per quello che ne ho potuto vedere e capire. Mi resta qualche perplessità sul fatto che questo lavoro sia condotto in modo del tutto separato dal tavolo sul quale si fa il Piano Regolatore Generale. Mi auguro che poi alla fine si verifichi un contatto. Però se questo contatto si fosse verificato durante i lavori io l’avrei ritenuto preferibile e più convincente.
Per tornare al discorso possono ancora essere proposte con chiarezza strategie diverse e qualificanti nella politica delle Pubbliche Amministrazioni? Io dico di sì. È questo che voglio, del resto, affermare e dimostrare, e penso che sia attraverso una più incisiva caratterizzazione delle strategie che può essere ritrovato un fertile rapporto tra amministratore e amministrati. Intendo affermare che differenza di obiettivi e, per conseguenza, di strategia, non solo sono pienamente giustificabili, a dispetto della crisi delle ideologie, della caduta dei muri che non c’entra niente, ma sono anzi raccomandabili come connotati di riconoscibilità delle diverse politiche. Per non ricadere a questo punto nelle trappole ideologiche della politica tradizionale, vi propongo di fare ricorso a categorie più neutrali, quelle della filosofia politica. Non spaventatevi, sarò breve e per quanto possibile chiaro. La filosofia politica indaga neutralmente l’attività della Pubblica Amministrazione. Noi ci riferiamo adesso a quello che la filosofia politica ha indagato nell’ultimo secolo ed in ambito nostro, in ambito occidentale: Europa e Stati Uniti d’America. Indaga neutralmente le procedure, i provvedimenti, le prassi e cerca di classificarle, cioè cerca di trarne delle indicazioni teoriche. La filosofia politica riconosce – se mi consentite qualche semplificazione – due teorie della giustizia sociale, che definisce come utilitarismo e contrattualismo. Non sono modi diversi di chiamare le stesse cose della politica perché la politica è transeunte, è mobile, è variabile. Le prassi della filosofia politica sono le costanti dell’azione della Pubblica Amministrazione, sono una cosa diversa e sono constatate nei fatti, non sono teoriche. Sono quelle concretamente messe in pratica, non quelle dichiarate o pubblicizzate. La filosofia politica naturalmente non esprime giudizi, non ci dice quale delle due teorie sia la migliore perché questo attiene alla politica e dipende da troppe variabili, nel tempo e nello spazio. Tuttavia ci dice che una politica è tanto più efficace quanto più è coerente e corrispondente ad una delle due teorie, sia perché la coerenza produce risultati più consistenti, sia perché la coerenza facilita il controllo da parte degli elettori, facilita la partecipazione democratica, facilita il consenso.
Che cosa distingue le due teorie? Bisognerebbe fare un discorso troppo lungo, io lo dirò in soldoni. L’utilitarismo è la teoria della giustizia sociale che preferisce i provvedimenti che massimizzano lo sviluppo economico, indipendentemente da chi lo realizza e da chi ne detiene il risultato e da come tale risultato viene distribuito. In sostanza cerchiamo di produrre più ricchezza e più velocemente perché poi i rapporti di produzione, le relazioni socioeconomiche del sistema prima o poi ne distribuiscono i benefici a tutta la collettività. Adam Smith riconoscerete, ma riconoscerete anche la signora Thatcher o forse Bush. Il contrattualismo obietta in base all’esperienza che non sempre è vero che tutti beneficeranno della maggiore ricchezza ed anche quando e dove è vero si verifica che comunque la distanza tra favoriti e svantaggiati del gioco economico aumenta. I meccanismi del sistema lasciati a loro stessi provocano un aumento, una divaricazione della forbice economico-sociale, dunque aumenta il disagio e la conflittualità. Pertanto il contrattualismo preferisce quei provvedimenti che favoriscono gli svantaggiati, attribuendo alla mano pubblica il compito prioritario di riequilibrare gli squilibri del sistema. Riconoscerete Keines.
Dunque non stiamo parlando di Stalin e neanche del socialismo. L’utilitarismo considera i cittadini tutti uguali o destinati a diventare uguali e si disinteressa delle differenze. Il risultato è che finisce per accentuarle. Il contrattualismo, viceversa, prende atto delle differenze e decide di trattare i cittadini in modo differente proprio per attribuire una preferenza agli svantaggiati, facendo così giustizia di un luogo comune che è molto diffuso, è una menzogna, è una trappola, quello in base al quale il massimo di correttezza di un operatore pubblico consisterebbe nel trattare tutti in modo uguale. Una trappola ed una menzogna. Per aiutare i cittadini a diventare uguali, occorre trattarli in modo diseguale, aiutando di più chi ha più bisogno.
A questo punto però sento aleggiare due domande: chi sono gli svantaggiati e che cosa ha a che fare tutto questo con il Piano Regolatore Generale? Gli svantaggiati sono tanti, a dispetto dell’impetuoso miglioramento delle condizioni economiche di questi ultimi decenni, diciamo, gli svantaggiati sono nuovi poveri, nuove povertà, i vecchi poveri che sono ancora poveri, sono i deboli di tutti i tipi, gli anziani, i malati, le donne che si affannano tra lavoro e famiglia, i bambini e soprattutto sono i diversi. Non andate subito con il pensiero ai marocchini. I diversi sono tanti e sono in casa nostra da molto più tempo dei marocchini, degli immigrati. Diversi sono tutti quelli che non aderiscono al pensiero omologato della maggioranza, sono i non cattolici per esempio, che trovano alcune difficoltà nella loro esistenza quando devono iscrivere un bambino alla scuola materna, quando devono andare in un ospedale o in una casa di cura, quando devono frequentare alcune attività culturali e si sentono discriminati, si trovano continuamente discriminati. Fate un esercizio, di diversi di questo tipo, ne trovate tantissimi.
Che cosa ha a che fare tutto questo con il Piano? Tutto questo ha molto a che fare con il Piano. La disciplina ci insegna che il Piano deve perseguire efficienza, equità e bellezza. L’efficienza è messa non solo al primo posto, ma è esaustiva per l’utilitarismo. Il contrattualismo persegue equità mettendo in subordine l’efficienza, cioè efficienza nella misura in cui è consentito dal compito prioritario di assicurare equità. Poi rimane la bellezza. Certo sarebbe utile che io facessi molti esempi pratici del perché tutto questo ha a che fare con il Piano Regolatore Generale. Mi sembra più divertente darvi un compito a casa…
(Interruzione della registrazione per cambio lato)
del Piano di Verona che è più complicato, ma si può cominciare con un Piano di un Comune della Provincia, un Piano più semplice.
Provate ad analizzarne i dispositivi e a classificarli per vedere quali corrispondono ad un approccio contrattualista e quali ad un approccio utilitarista. È un esercizio estremamente utile e anche divertente e soprattutto ci aiuta, aiuta moltissimo a capire il Piano. È quello che pensiamo che poi possa avvenire anche per tutti, per il pubblico, quello dal quale ci aspettiamo che aderisca o che non aderisca ad un nuovo strumento di pianificazione. Però la bellezza era rimasta da parte, non ci siamo arrivati e allora la recuperiamo adesso. Mi serve per chiudere in bellezza. La bellezza per un Piano è la qualità dell’ambiente, non solo quello naturale, anche quello costruito, l’ambiente urbano, la tutela e la valorizzazione dell’ambiente naturale e di quello urbano. La tutela e la valorizzazione delle testimonianze artistiche, storiche, la compatibilità ambientale, la compatibilità dello sviluppo. Tutto questo è un compito prioritario nella logica del contrattualismo.
Suppongo che l’utilitarismo sia indifferente al tema e quindi si possa trovare chi ne è sensibile e chi no, ma il contrattualismo non lo può ignorare, non lo può trattare neutralmente questo tema. È un compito prioritario perché la tutela ambientale ha come destinatario la categoria sociale, la più debole, la più svantaggiata, la più discriminata, la più fragile, la più indifesa, sto parlando delle generazioni future.