Welfare locale e patrimonio civico: il ruolo della valutazione nella condivisione pubblico-privato dei costi urbani
di Fausto Curti
Il tema di questo breve contributo è il rapporto tra welfare locale e offerta privata di servizi pubblici, e in particolare il ruolo della valutazione urbanistica nel facilitare uno scambio leale tra amministrazione locale ed operatori immobiliari nel corso del processo di trasformazione urbana.
Non discuterò quindi il concetto di qualità urbana come esito auspicato delle politiche pubbliche, bensì una questione circoscritta che attiene il modo di produzione della qualità urbana entro un orizzonte normativo emergente, che pretende di porre soggetti pubblici e privati su un piede di parità nel governo del territorio.
L’idea della valutazione come strumento di lealtà e di apprendimento sociale gode di ampio consenso teorico, ma è ancora lontana dal guidare la prassi amministrativa se è vero che i diversi Programmi Complessi – dai Pru, ai Prusst – lanciati come veicoli di riqualificazione urbana, hanno prodotto, da questo punto di vista, esiti modesti: morfologie chiuse, arroccamento dei servizi offerti, ritardo nell’esecuzione delle opere concordate, sebbene siano stati realizzati in una fase di ripresa del mercato e quindi con profitti superiori alle attese.
Nell’attesa di un bilancio organico della programmazione negoziata (che forse è tempo di fare), il tema presenta un chiaro interesse metodologico perché incrocia due questioni decisive ai fini della governance del territorio, e tuttavia neglette nella nostra riflessione disciplinare: cioè il rapporto tra urbanistica e fiscalità locale e tra urbanistica e ciclo immobiliare.
Li menziono distintamente per poi evidenziarne la relazione.
E’ noto come, in autonomia finanziaria, la capacità di spesa degli enti locali dipenda dallo stock immobiliare esistente (attraverso l’Ici che è la principale entrata dei comuni) e dallo sviluppo immobiliare (attraverso oneri concessori ed esazioni negoziate, che danno un gettito ragguardevole soprattutto in fase di espansione).
Col ridursi dei trasferimenti dal centro e coll’aumentare delle competenze loro assegnate, i comuni, per non aumentare la pressione fiscale sul proprio elettorato, sono spinti ad ampliare la base imponibile attraverso lo sviluppo immobiliare all’interno dei confini comunali, e la cattura di funzione lucrose per i bilanci locali (in primo luogo la grande distribuzione) e l’espulsione di funzioni povere a scapito dei comuni vicini.
Se non corrette con gli strumenti propri del governo del territorio, le due principali conseguenze urbanistiche della nostra autonomia fiscale a base immobiliare sono dunque la subordinazione della sostenibilità urbana ad esigenze di cassa, e la concorrenza fiscale intercomunale, che pregiudica la costruzione di strategie condivise di scala vasta.
Veniamo ora al ciclo immobiliare. Tutti gli urbanisti sanno che il mercato immobiliare è fluttuante, presenta alti e bassi, ma non si sono mai occupati di adattare esplicitamente obiettivi e strumenti delle politiche urbanistiche al variare della congiuntura. Hanno anzi spesso sortito un effetto pro-ciclico (di amplificazione delle oscillazioni, anziché di stabilizzazione del trend) perché hanno irrigidito vincoli e oneri in fase di stagnazione e deregolato e defiscalizzato in fase di crescita: dal primo dopoguerra ai giorni nostri il caso milanese è paradigmatico al riguardo.
Questo inconveniente è ora aggravato dal fatto che il ciclo della spesa locale dipende dal ciclo immobiliare. Vale la pena di sottolineare che nel nostro paese la transizione al "federalismo del mattone" è avvenuta negli ultimi anni, cioè in una fase anomala di boom immobiliare seguito alla flessione dei primi anni 90, che ha risparmiato alle nostre città la crisi fiscale subita dalle altre città europee, con sistemi di prelievo misti che poggiano anche sul volume della produzione o dei consumi.
Ma proprio per questo i bilanci dei comuni italiani sono più vulnerabili alle inversioni di fase, e se l’immobiliare entrasse in declino (come è probabile dopo alcuni anni di crescita tumultuosa) è lecito chiedersi chi ripagherà i costi del mancato adeguamento della città pubblica in questa stagione di edificazioni massive.
Infatti è ben vero che la crescita edilizia – attraverso l’Ici e gli oneri concessori – determina le entrate, ma essa determina anche il fabbisogno, lo sposta solo in là nel tempo, quando si manifesterà la domanda di servizi dei nuovi insediati e quando si dovrà porre rimedio agli impatti ambientali e sulla mobilità dei nuovi carichi insediativi.
In qualche modo l’urbanistica della flessibilità senza regole esprime lo stesso appiattimento sul presente della finanza creativa: che attraverso le cartolarizzazioni e la svendita del demanio (senza reimpieghi o abbattimento del debito) anticipa liquidità e dilaziona strozzature di bilancio a spese delle generazioni venture.
Mi preme ricordare che l’Inu Lombardia aveva posto per tempo la questione, già prima dell’approvazione del progetto di legge (poi 9/99) che introduceva i Pii come strumento normale di trasformazione urbanistica, in un documento inviato ai consiglieri regionali (che non ha avuto invero molta eco) in cui si raccomandavano tre aggiustamenti al dispositivo, e precisamente:
Si trattava di indicazioni più coerenti con l’impostazione del progetto di legge lombarda che con la linea di riforma sostenuta dall’Istituto in quegli anni, che non pretendevano di usare il piano come strumento di growth control, di zonizzazione per il contenimento, bensì di accompagnare lo sviluppo con solide procedure valutative capaci di rallentare l’abuso dell’ambiente urbano in fase di espansione, almeno evitando che i costi di adeguamento della capacità di carico venissero posticipati in un momento successivo, magari di recessione, quando la rinuncia a nuove investimenti pubblici e anche alle manutenzioni costituisce la risposta tacita alle ristrettezze di bilancio, a costo di lasciare deteriorare le dotazioni esistenti.
Peraltro, nel quadro normativo delineato dalla recente legislazione lombarda, con un piano dei servizi e un programma triennale credibile sembra possibile valutare plausibilmente il rapporto tra nuovo progetto e assetto desiderato degli spazi pubblici e delle dotazioni, e quindi giustificare un ragionevole scambio pubblico/privato che tratti in modo uniforme i diversi operatori e garantisca l’attuazione in tempo debito delle migliorie programmate nell’intorno.
La valutazione di impatto fiscale dei progetti urbani (che è al centro delle logiche di contrattazione pubblico/privato nei maggiori interventi di riurbanizzazione nei paesi anglosassoni, presi a modello dell’urbanistica concertata) può contribuire al contenimento dello sviluppo, restituendo trasparenza al trasferimento inter-temporale dei costi e contemperando il principio di sussidiarietà orizzontale con il principio di concurrency, cioè di contemporanea ricostituzione della capacità di carico urbana.
Infatti, in presenza di un mercato immobiliare dinamico e di una vasta dote di aree dismesse in zone attrezzate e appetibili la municipalità può negoziare con successo una congrua fornitura di beni e servizi di interesse generale attraverso gli accordi di programma sui maggiori interventi, in quanto l’assegnazione dell’edificabilità (almeno per i programmi complessi) non è sancita nel piano, ma deriva dalla proposta, e quindi consentirebbe una trattativa concludente, come avviene appunto nei sistemi evoluti di pianificazione concertata.
Una volta che la città è satura e che lo scrigno dei diritti edificatori assegnabili discrezionalmente è vuoto, l’onere di finanziare opere pubbliche e servizi si sposta su altri soggetti locali e dipende:
Queste ultime soluzioni sono criticate perché circoscrivono l’uso di beni collettivi alle sole clientele solvibili, a prezzo di una progressiva spoliazione del principio di cittadinanza (il cosiddetto welfare à la carte), ma sono a parer mio preferibili ad una tassazione regressiva sull’intera città (regressiva nel senso che chi ha di più paga meno, come spesso capita con l’Ici in attesa dei nuovi estimi) per fornire migliori servizi alle aree già meglio servite (secondo la direzione di marcia dello" standard flessibile").
Si tratta di rischi latenti, che minano la competitività e la qualità urbana, ma che possono essere temperati attraverso una valutazione tempestiva e un adattamento conseguente dei programmi di spesa e delle misure di prelievo, che determinano la fattibilità delle politiche e dei progetti urbani.
Il ciclo immobiliare è fluttuante, il ciclo fiscale pure (tanto più quanto più è a base locale e fondato sul settore immobiliare): la valutazione è un mezzo per evitare che il pubblico ne subisca il contraccolpo, dissipando il patrimonio civico e la dote di capacità edificatoria in fase di crescita per subire il degrado in fase di flessione, con buona pace della qualità complessiva dell’ambiente urbano.