FEDERALISMO
VERSO L’AUTORIFORMA COSTITUZIONALE
(Luisa De Biasio Calimani- componente della commissione bicamerale per le questioni regionali-XIII legislatura)
Il tema del federalismo ha avuto in questi anni forti oscillazioni sia nell’interesse dei media che della società civile e politica, apparendo a tratti con la vacuità di una moda e in altri con l’inquietante volto della secessione.
Sono entrambe forme che denutrono il tema della sua vera sostanza.
La domanda di federalismo nasce dalla incapacità dello Stato centrale di dare risposte alle domande dei cittadini e ai processi di trasformazione che sempre più rapidi investono l’economia e la società.
Il federalismo
è un processo di modernizzazione della società, è la FORMA DI STATO che garantisce l’unità nazionale in quanto evita spinte centrifughe, attraverso l’assunzione di ruolo dei soggetti istituzionali.Il federalismo rappresenta una
forma di democrazia orizzontale rispetto allo schema piramidale costituito al vertice dallo Stato centrale e in successione da Regioni, Province e Comuni.Il Partito dei Democratici di Sinistra è sempre stato un grande partito riformista ma non un partito federalista. Le ragioni sono in parte espresse in alcune considerazioni fatte dal prof. Barbera che afferma che "regionalismo e federalismo non realizzano a pieno i valori dell’eguaglianza e per questo nella storia politica la sinistra non è stata federalista". Ma vi è oggi uno sforzo della sinistra per reinterpretare il modello federalista facendolo coesistere con i principi e i valori della solidarietà. E’ questa nuova visione federalista che ha promosso l’attuazione di un’ampia e incisiva riforma mai vista nella storia della Repubblica. La grande spinta riformatrice del Governo di centrosinistra ha agito su due
assi fondamentali e complementari: il decentramento amministrativo a Costituzione invariata e la modifica della seconda parte della Costituzione.
IL FEDERALISMO AMMINISTRATIVO
Con la legislazione Bassanini è stato promosso il più incisivo processo di decentramento mai realizzato in Italia. Sfruttando al massimo le potenzialità della Costituzione vigente, si è posta la regola secondo cui l’attività amministrativa deve essere esercitata a livello locale, e l’intervento dello Stato viene limitato ad alcuni compiti tassativamente elencati, come la politica estera e la
difesa, la moneta, la previdenza sociale, l’ordine pubblico, la giustizia, l’immigrazione. Non è stato naturalmente possibile, con una legge ordinaria, attribuire alle Regioni maggiori poteri legislativi, consentiti solo da una modifica del testo costituzionale. Da qui il concetto di federalismo amministrativo" o "di esecuzione", nel senso di una cessione, tendenzialmente piena, di potere esecutivo dallo Stato alle autonomie anche in quelle materie in cui lo Stato conserva una esclusiva competenza normativa.L’intero processo è ora nella sua fase di completamento perché il Governo sta definendo, in accordo con le autonomie e il Parlamento, le risorse (persone e mezzi materiali) da trasferire agli enti locali perché questi possano adempiere ai nuovi compiti. Perché il processo di riforma si possa perfezionare è necessario definire, attraverso una fase di concertazione tra Governo, Regioni ed Enti locali, con il vaglio del Parlamento, in concreto quanti mezzi trasferire al sistema delle autonomie attraverso appositi decreti. Al momento attuale sono vigenti i decreti concernenti il mercato del lavoro, gli enti fieristici, gli uffici metrici provinciali. Sette schemi di decreti (agricoltura, sanità, veterinaria, invalidi civili, istituti professionali etc.) sono all’esame del Parlamento dopo il vaglio favorevole di Regioni ed enti locali e altri sono in fase di elaborazione congiunta da parte dei "tavoli tecnici" tra Governo e autonomie e verranno approvati formalmente entro la fine di marzo dalla Conferenza Stato-Regioni-Enti locali.
Lo scorso 16 marzo la Conferenza Unificata ha espresso parere favorevole sullo schema di DPCM di individuazione dei beni e delle risorse da trasferire in materia di protezione civile (oltre 52 miliardi di lire, 60 dipendenti, il 30 per cento dei beni immobili); su quello di trasferimento alle Regioni di beni e risorse umane, finanziarie, strumentali e organizzative in materia di energia e risorse minerarie (oltre 7 miliardi di lire, 71 dipendenti, tutti i beni in esercizio dei distretti minerari); su 15 schemi di DPCM in materia di mercato del lavoro delle Regioni a statuto ordinario (in sostanza, i provvedimenti trattano esclusivamente il trasferimento delle risorse finanziarie relative al personale già trasferito da precedenti DPCM); e, infine, sullo schema di DPCM di individuazione dei beni e delle risorse da trasferire in materia di ambiente (815 miliardi).
Il completamento dell’intero processo deve aver luogo entro il 31 dicembre del 2000.
Si tratta di una operazione di decentramento imponente e senza precedenti che va nella direzione da tutte le forze politiche chiesta a parole, ma che nei fatti solo i Governi di centro-sinistra di questa legislatura hanno pervicacemente voluto e perseguito
.Viceversa, da parte delle giunte di centro-destra di alcune Regioni il processo di decentramento
è stato attaccato con ripetuti ricorsi alla Corte costituzionale. L’ultimo ricorso in ordine di tempo è stato proposto dal Veneto lo scorso 5 gennaio contro un decreto correttivo del decreto 112, con il quale, fra l’altro, vengono anche attribuite nuove competenze alle regioni ad esempio nel delicato settore, di forte impatto con il territorio, dello stoccaggio di energia.A ciò si aggiunga che proprio la regione Veneto è, sul versante dell’attuazione della legislazione di decentramento, assai in ritardo:
rispetto al più importante decreto di trasferimento (il 112/98) il Veneto non ha ancora approvato la propria legge di recepimento (avrebbe dovuto farlo entro il marzo del 1999). Se le Regioni non adottano una propria legge di recepimento, come nel caso Veneto, manca un riparto della distribuzione dei compiti tra Regioni, Province ed enti locali, perché lo Stato ha demandato proprio alle Regioni questo ruolo.
Bisogna inoltre notare che, oltre a "delegare" la generalità dei compiti amministrativi, si è inteso completare il trasferimento di attività che, teoricamente, già erano di pertinenza delle autonomie, ma che, a causa di una concezione "riduttiva" che ha costantemente viziato tutti i processi di decentramento, erano rimasti in capo allo Stato.
I settori organici di materie oggetto del conferimento di competenze (nel duplice senso di una delega di poteri statale e di completamento del trasferimento di poteri già teoricamente spettanti alle autonomie) sono i seguenti.
Attività produttive
Si tratta di uno dei settori più delicati in quanto sino ad oggi le regioni erano rimaste ai margini del governo dell’economia, e d’altra parte i continui interventi dell’Unione europea, con norme anche assai dettagliate impediscono un definitivo assestamento del quadro delle competenze. Alle Regioni sono attribuite ex novo le funzioni in materia di industria, commercio, energia, risorse minerarie, mentre nei settori dell’artigianato, del turismo, dell’agricoltura e della pesca si tratta di un completamento di trasferimenti di funzioni già avvenuti in precedenza. In questi settori il ruolo dei comuni è marcato soprattutto nel campo dell’organizzazione dello sportello unico per le imprese e nel campo del commercio, dove il ruolo delle regioni è essenzialmente limitato alla programmazione della rete distributiva. Per quanto riguarda lo sportello unico i primi dati attestano una riduzione dei tempi da circa due anni a soli tre mesi. Alle province, salvo ulteriori deleghe da parte delle regioni, sono affidati compiti importanti in materia di energia e fonti rinnovabili. E’ stata compiuta anche un’importante azione di semplificazione, sopprimendo procedure inutili (come il visto annuale sulle licenze di panificazione), oppure introducendo il silenzio-assenso per esempio in materia di esercizio dei mulini o dei panifici, o prevedendo la mera dichiarazione di inizio di attività (come per le attività di autoriparazione e di pulizia). E’ stata snellita la disciplina delle Camere di commercio, eliminando i controlli sugli atti (bilanci, organici, statuti) e dando alle regioni i necessari poteri di scioglimento degli organi in caso di mancato funzionamento.
Territorio, ambiente e infrastrutture
L’attribuzione al sistema delle autonomie è riferita ai settori dell’urbanistica, edilizia residenziale pubblica, protezione della natura, risorse idriche, opere pubbliche, viabilità, trasporti e protezione civile. Anche qui il modello di riferimento prevede le regioni come ente di programmazione e legislazione, e gli enti locali come soggetti di gestione dei servizi. In particolare alle province spetta un ruolo importante nella pianificazione del territorio attraverso i piani di coordinamento, in materia di reti stradali e di protezione civile.
In tema di assetto del territorio e di urbanistica non vi sono significative novità in quanto si riscontra una complessiva conferma dell’assetto normativo preesistente, mantenendosi allo Stato la definizione delle linee fondamentali dell’assetto del territorio, riconducibili alla funzione di indirizzo e coordinamento, e la gestione del regime vincolistico di cui alla legge n. 1497 del 1939.
In materia di problematiche ambientali vi è da segnalare la semplificazione del sistema di pianificazione attraverso la soppressione del programma biennale per la tutela dell’ambiente e dell’analogo programma per le aree naturali, documenti che di fatto non avevano contribuito al perseguimento degli obiettivi per cui erano stati concepiti, risolvendosi invece in fattore di complicazione amministrativa. Restano molto rilevanti i compiti di interesse nazionale mantenuti allo Stato, peraltro con un significativo coinvolgimento delle regioni e degli enti locali attraverso le sedi di confronto (Conferenza Stato-regioni ed unificata).
Quanto all’edilizia residenziale pubblica, il decreto legislativo conserva allo Stato la determinazione dei principi e delle finalità di carattere generale ed unitario sul territorio nazionale, da effettuarsi coerentemente con le linee delle politiche sociali del paese, la definizione degli standard qualitativi degli alloggi, (funzione già prevista dalla legge n. 457/78, ma esercitata esclusivamente introducendo limiti massimi di superficie e di costo), la raccolta e la valutazione dei dati sulla condizione abitativa, la definizione dei criteri per favorire il sostegno economico alle famiglie meno abbienti, attualmente escluse per carenza di abitazioni, dall’edilizia residenziale pubblica. Resta inoltre la possibilità, per lo Stato, di partecipare, in concorso con le Regioni ed i Comuni interessati, al sostegno finanziario di programmi di interesse nazionale. Alle Regioni invece viene conferita, con l’art. 60 del decreto, la programmazione delle risorse finanziarie destinate al settore (e quindi di tutti i finanziamenti), l’individuazione delle linee di intervento ritenute prioritarie a livello locale, la determinazione dei meccanismi di incentivazione finanziaria, da diversificare anche per ambiti territoriali o per condizioni socio-economiche, l’attuazione degli interventi, da esercitarsi nelle forme che le Regioni stesse stabiliranno, comprese quelle di tipo complesso quali i programmi di riqualificazione urbana o i programmi integrati.
Non è ancora stato definito il ruolo degli IACP-ATER e l’attribuzione del patrimonio
di Edilizia Residenziale Pubblica che, coerentemente con i principi generali enunciati non deve essere conferito alle regioni assegnatarie di funzioni legislative, programmatorie e non gestionali, ma piuttosto ai comuni e a loro associazioni.Altra questione non definita riguarda le risorse finanziarie destinate all’edilizia sociale dopo l’esaurimento delle trattenute ex Gescal.
La materia che già il DPR 616 mette in capo alle regioni non è mai stata da queste veramente assunta soprattutto se si osservano le scarse o nulle risorse finanziarie che i bilanci regionali destinano all’E.R.P.
E’ necessario pertanto assumere in concerto con le regioni e gli enti locali indirizzi su modalità certe di reperimento di tali risorse, affinché il diritto all’alloggio sia, insieme al diritto alla salute e all’istruzione garantito.
Un altro settore importante concerne la viabilità: i due terzi delle strade statali sono state trasferite alle regioni con il decreto legislativo n. 461 del 1999, restando allo Stato 15.500 chilometri della rete, cioè le strade aventi rilevanza internazionale e le grandi direttrici di traffico, oltre alla rete autostradale. Comunque il provvedimento si potrà considerare operativo solo dopo la riforma dell’ANAS, la sua regionalizzazione o provincializzazione e il trasferimento di mezzi e risorse ai gestori della rete.
Servizi alla persona e alla comunità
Anche qui è generalizzata l’attribuzione alle autonomie di competenze nei settori della tutela della salute, dei servizi sociali, dell’istruzione scolastica, della formazione professionale, dello sport e del mercato del lavoro. Naturalmente i compiti dei comuni saranno orientati soprattutto in materia di servizi sociali e i compiti delle province nell’ambito della formazione professionale e del lavoro. Si tratta comunque di un completamento e di un consolidamento di trasferimenti già precedentemente attuali.
IL FEDERALISMO FISCALE
Non ci può essere vero federalismo se gli enti locali e le regioni non dispongono di adeguate risorse finanziarie
che possano destinare liberamente per realizzare proprie politiche locali. Sino ad oggi la finanza locale si è imperniata su trasferimenti statali vincolati nella destinazione, annullando quasi del tutto l’autonomia di spesa e quindi la stessa autonomia politica degli enti territoriali.La recente riforma conosciuta come federalismo fiscale, assegna alle regioni una quantità di finanziamenti, senza vincoli di destinazione, di circa 40 mila miliardi, di cui 35.000 derivanti dal 25,7% dell’IVA e altri 5.000 derivanti da IRPEF e accise sulla benzina. Entro 3 anni il bilancio delle regioni sarà costituito da risorse e tributi propri e da una quota di tributi nazionali derivanti da quelli riscossi nella regione stessa. Inoltre attraverso un fondo perequativo di 12 mila miliardi verranno sostenute le regioni che non sono ancora in grado di autofinanziarsì. Attualmente solo sette regioni, fra le quali il Veneto, hanno autonomia finanziaria. Nell’arco del prossimo triennio sarà superato l’attuale sistema di finanziamento della sanità incentrato sul fondo sanitario nazionale.
E’ fondamentale che la gestione del fondo preveda il diretto coinvolgimento delle regioni, per superare ogni logica centralistica e paternalistica e per promuovere un processo virtuoso tra le regioni.
Il meccanismo perequativo deve costituire una misura transitoria per ridurre il divario fra regioni e assicurare a tutti i cittadini standard minimi di servizi.
LA RIFORMA DELLA AUTONOMIE LOCALI
La riforma della legge 142 del 1990 inaugura una nuova stagione statutaria per gli enti locali in quanto lo statuto non solo si è rafforzato nell’ambito della gerarchia tra fonti normative (può essere modificato da norme statali solo in modo espresso), ma è più ampio lo spazio di intervento (ad esempio nella determinazione del numero dei componenti della giunta).
Viene inoltre delineato un nuovo ruolo dei consigli, per bilanciare lo spostamento a favore degli esecutivi dei poteri decisionali dopo la legge n. 81 del 1993. In particolare è stato rafforzato il ruolo del Presidente del consiglio comunale, obbligatorio nei comuni con più di 15 mila abitanti, che assume compiti di garanzia rispetto alla Giunta. Le commissioni consiliari di vigilanza e controllo saranno presiedute da esponenti dell’opposizione.
Un ulteriore obiettivo è il rilancio delle forme associative tra enti locali, che si possono costituire liberamente a tempo indeterminato, senza più essere preordinate a un processo di fusione che, auspicato dalla legge n. 142 del 1990, non è mai decollato nella pratica.
E’ stato riaffermato il principio della separazione tra attività politica e attività di gestione, affidata ai dirigenti.
Sulle città metropolitane le scelte operate dalla riforma sono quelle compatibili con il quadro costituzionale vigente che non consente di creare un nuovo tipo di ente locale, ma permette di muoversi esclusivamente nell’ambito del modello "provincia": la definizione dell’area metropolitana non comporta l’automatica creazione della Città metropolitana, ma sarà l’ambito in cui gli enti ricompresi potranno fare accordi diretti a gestire determinati servizi. La Città sarà creata se ci sarà la volontà dei singoli comuni di farla nascere, ma ciò comporterà la soppressione della provincia.
Ritengo che lo sforzo fatto sia ancora insufficiente. Per definire questo nuovo livello istituzionale è necessario un coordinamento fra legge ordinaria e legge costituzionale. La versione attuale risulta a mio avviso asfittica perché incapace di consegnare agli enti locali la scelta del loro destino, che è già disegnato nel territorio dalla realtà morfologica ed economica, alla quale manca però un governo istituzionale corrispondente che l’insufficienza delle proposte finora approvate non ha permesso di far decollare.
LE RIFORME COSTITUZIONALI.
Por mano a una riforma costituzionale, in materia di ordinamento delle regioni, non è stato e non poteva essere cosa facile in quanto il ritardo più che ventennale con cui le regioni furono realizzate negli anni ‘70 rispetto alla previsione della Costituzione e lo stesso orientamento tenuto in un passato non lontano dal legislatore e dalla Corte costituzionale hanno tradito l’intuizione costituzionale, impedendo il decollo delle autonomie, ostacolandone il ruolo di possibili protagonisti di reali processi di riforma del Paese e finendo per farne invece una riproduzione, a scala ridotta, delle burocrazie e dell’immobilismo dello Stato centrale. Si è consolidato così nei primi decenni dello stato repubblicano un potere centrale che gonfiandosi e rafforzandosi nei suoi centri decisionali sempre più potenti e costosi sottraeva risorse e poteri al territorio e formava una cultura centralistica difficile da scardinare. Solo il concorso di forze politiche, economiche, sociali, civili e istituzionali determinate può rovesciare il vecchio impianto e costruire un nuovo modello di stato.
L’ELEZIONE DIRETTA DEI PRESIDENTI DELLE REGIONI E
AUTONOMIA STATUTARIA.
(Legge Costituzionale. 1/1999)
La legge costituzionale n. 1 del 1999 prevede l’elezione diretta dei presidenti delle regioni con l’obiettivo di costruire una vera democrazia dell’alternanza, creando i presupposti per la formazione di esecutivi stabili e rispondenti alla volontà degli elettori. Di qui l’esigenza di introdurre anche una norma "anti-ribaltone" che impone lo scioglimento del consiglio regionale e le dimissioni della giunta in caso di dimissioni del presidente della giunta, ovvero nel caso in cui sia lo stesso consiglio a votare una mozione di sfiducia nei confronti dell’esecutivo.
Il provvedimento conferisce alle regioni, dopo le elezioni del 2000, un’autonomia statutaria piena anzitutto sotto il profilo procedurale, in quanto gli statuti saranno approvati dai consigli regionali senza alcun intervento successivo né del Governo né del Parlamento, necessari invece secondo il precedente testo costituzionale. L’autonomia inoltre è molto più estesa anche sotto il profilo dei contenuti perché ogni regione potrà adottare la forma_di governo e la propria legge elettorale anche diversi dal modello centrale.
Secondo il nuovo articolo 121 della Costituzione (modificato dall’articolo 1 della legge costituzionale), il presidente della giunta oltre a rappresentare la regione, promulgare le leggi ed emanare i regolamenti regionali e a dirigere le funzioni amministrative della regione "dirige la politica della giunta e ne è responsabile". L’espressione pone in evidenza la più forte responsabilità politica del capo dell’esecutivo regionale, chiamato ora a rispondere agli elettori che lo eleggono. La nuova dizione dell’articolo 122 della Costituzione (modificato dall’articolo 2 della legge) stabilisce espressamente che il Presidente venga eletto, "salvo che lo statuto regionale disponga diversamente", "a suffragio universale diretto". Quindi pur lasciando in teoria alle regioni la possibilità di legiferare in modo diverso, in pratica la riforma costituzionale rende operativa e presumibilmente stabile l’elezione diretta dei presidenti in quanto ritengo improbabile la retrocessione da questa conquista che non otterrebbe grandi consensi da parte degli elettori. Nello stesso articolo si dettano modalità per la composizione della giunta: sarà il presidente eletto a nominarne e revocarne i componenti, scegliendoli tra gli eletti o tra personalità esterne.
Ma il dato che fa della legge costituzionale n. 1/99 un provvedimento assai importante in una prospettiva di federalismo (forse persino eccessivo), è che ciascun consiglio regionale potrà scegliere autonomamente la legge elettorale (tra sistemi proporzionali, maggioritari. doppio turno e misti). E’ sempre il nuovo articolo 122 della Costituzione (come modificato dall’articolo 2 della legge costituzionale) a prevedere che le regioni possano fissare in una legge elettorale regionale le modalità ed il sistema di elezione, mentre spetterà al Parlamento elaborare una legge cornice in materia.
Il nuovo dettato costituzionale prevede una nuova fattispecie di incompatibilità. La Costituzione prevedeva l’incompatibilità ad assumere il mandato di una delle Camere del Parlamento. Ora è previsto anche il divieto di appartenere contemporaneamente non solo a un altro consiglio o a una giunta regionale, o a una delle due Camere del Parlamento, ma anche al Parlamento europeo. Peraltro la recente vicenda del Presidente del Consiglio regionale del Veneto che, eletta parlamentare europeo, ha continuato a rivestire due cariche in manifesta violazione del precetto costituzionale induce una riflessione sulla necessità di prevedere adeguate procedure sanzionatorie.
Ogni regione adotterà, nel proprio statuto, la forma di governo che riterrà più congeniale confermando il modello presidenziale o ripristinando quello parlamentare che ha caratterizzato le prime sei legislature regionali. Lo prevede la nuova formulazione dell’articolo 123 (modificato dall’articolo 3 della legge costituzionale) della Costituzione, in cui si precisa che lo statuto regionale (contenente norme "in armonia con la Costituzione") potrà essere sottoposto a referendum popolare "qualora entro tre mesi dalla sua pubblicazione ne faccia richiesta un cinquantesimo degli elettori della regione o un quinto dei componenti il consiglio regionale. Lo statuto sottoposto a referendum non è promulgato se non è approvato dalla maggioranza dei voti validi".
L’elezione diretta dei presidenti delle regioni voluta e ottenuta con il governo di centro-sinistra, che conferisce ai cittadini un "potere aggiunto", assume in questa situazione politica un significato strategico ai fini della stessa credibilità delle istituzioni. La scarsa capacità delle forze politiche di coinvolgere e appassionare, l’incapacità delle coalizioni di proporsi come soggetti politici credibili in grado di esprimere un progetto condiviso dalle sue componenti che non sempre appaiono politicamente e programmaticamente fra loro compatibili, la confusa appannata definizione di progetti alternativi o quanto meno la difficoltà di renderli comprensibili, esaltano il valore della competizione dei due protagonisti candidati presidenti, rendono più leggibili le differenze, quindi più trasparente e chiara la scelta.
E’ qualcosa che il cittadino elettore può confrontare con parametri di lettura che non debbono essere decodificati. E’ un modo per avvicinare la gente alla gestione della cosa pubblica, perché l’uomo o la donna prescelti dalle coalizioni non escono dalla contrattazione dei partiti a posteriori, ma li costringono ad una scelta che si avvicini il più possibile alla volontà della gente, favorendo quindi la scelta più convincente del candidato.
Non escludo e auspico che il fenomeno dell’astensione possa avere con l’elezione diretta dei presidenti una battuta d’arresto; la maggior partecipazione al voto sarebbe il segno di una piccola quota di fiducia recuperata.
La riforma costituzionale riferita alle regioni a statuto ordinario è oggi di particolare interesse perché riguarda proprio l’atto che i cittadini stanno per compiere con il voto del 16 aprile. Nuove grandi potenzialità di federalismo e autonomia regionale sono espresse in questo testo già in vigore.
L’ORDINAMENTO FEDERALE DELLA REPUBBLICA
Un’altra riforma costituzionale, che assume parte importante del progetto della Bicamerale, di modifica del titolo V della parte Il della Costituzione, di cui l’on. Soda è relatore e dal novembre scorso all’esame dell’aula.
Il testo rappresenta un salto di qualità dal modello regionalista a un modello federalista basato sulla cosiddetta clausola dei poteri residui, per cui i poteri dello Stato sono solo quelli tassativamente previsti, tutti gli altri spettando alle regioni.
Viene inoltre affermato il principio di sussidiarietà. Contrariamente a quanto si pensa tale principio è stato già da tempo inserito nel nostro ordinamento positivo, attraverso la ratifica della Convenzione europea relativa alla Carta europea dell’autonomia locale: il documento, firmato a Strasburgo dai paesi appartenenti al Consiglio d’Europa, è stato recepito dal nostro ordinamento con la legge 30 dicembre 1989, n. 439. All’articolo 4, comma 3, la Convenzione afferma testualmente: L ‘esercizio delle responsabilità pubbliche deve, in linea di massima, incombere di preferenza sulle autorità più vicine ai cittadini. L ‘assegnazione di una responsabilità ad un ‘altra autorità deve tener conto dell’ampiezza e della natura del compito e delle esigenze di efficacia e di economia. Di fatto, però, il principio, proprio per l’elasticità della sua formulazione — tipica degli atti internazionali — e la sua collocazione a un livello non costituzionale, è stato disatteso e la stessa riforma degli enti locali contenuta nella legge 142 del 1990, da questo punto di vista, non è stata in grado di realizzare questa fondamentale esigenza dell’assunzione delle decisioni al livello più vicino possibile ai cittadini: un’esigenza che è soprattutto fattore e parametro della democraticità di un sistema politico. Il principio di sussidiarietà deve essere definito a livello costituzionale e con formule precise non equivoche per evitare il rischio (che alcune regioni come il Veneto hanno dimostrato essere una certezza) che esso venga vanificato dal centralismo regionalista.
La possibilità di costruire forme differenziate di autonomia, il cosiddetto federalismo a geometria variabile, anche per le regioni a statuto ordinario, permette di rispettare le differenze delle singole realtà territoriali, secondo un modello che si ritrova nelle comunità autonome dell’ordinamento spagnolo. E’ una prospettiva che dovrebbe portare al dissolvimento delle autonomie speciali oggi esistenti attraverso il superamento del dualismo regioni speciali — regioni ordinarie che, soprattutto per realtà come il Veneto, incuneato fra due regioni speciali, appare anacronistico e soprattutto fattore di distorsione del sistema economico-produttivo. Peraltro lo schema ipotizzato (che rende possibile alle regioni di acquisire poteri di legislazione esclusiva nelle materie in cui lo Stato può dettare leggi-quadro di principi) dovrebbe essere ripensato e reso più elastico, visto che per molte delle materie riservate allo Stato non sarebbe affatto strano pensare a una potestà concorrente delle regioni.
Un altro momento di riflessione attiene ai rapporti "esteri" delle regioni. Il testo presentato può spingersi con più coraggio oltre i confini sia per quanto attiene i rapporti delle regioni con i singoli Stati sia riguardo a quelli da intraprendere dalle stesse con l’Unione Europea, anche attraverso la semplificazione delle procedure riferite alla stipula di accordi con altre regioni comunitarie, tenuto conto del fatto che l’Unione esercita i poteri normativi in materie che erano e sono di competenze regionale (sì pensi all’agricoltura). E’ infatti evidente che gli affari esteri sono una delle competenze incontestabilmente proprie dello Stato federale ed è quindi necessario mantenere un quadro unitario della politica internazionale, ma è pur vero che in ambito comunitario la rete delle relazioni tra le varie realtà locali tende ad avere una valenza sempre più interna. Resta inoltre l’esigenza di un coinvolgimento maggiore delle regioni nella definizione della politica nazionale a Bruxelles.
Anche il tema delle aree metropolitane non ha probabilmente trovato una soluzione adeguata: devono essere contemplate dal testo i costituzionale, ma non definite con formule che invece devono essere rimesse ad altre fonti normative, che rendano possibile anche processi spontanei compresa la possibilità di istituire comunità metropolitane in grado di costituire un vero e proprio governo metropolitano.
Basterebbe quindi in costituzione citare le città metropolitane come possibile livello di governo, lasciando a leggi ordinarie il compito della loro definizione.
Un limite presente nel progetto di riforma costituzionale riguarda la Camera federale. Si potrebbe ipotizzare una costituzionalizzazione della partecipazione dei presidenti delle regioni alla Commissione bicamerale per le questioni regionali, proposta assunta nel parere della Commissione stessa e probabilmente oggetto di un emendamento che lo
stesso Cerulli Irelli presenterebbe al testo in Aula.Le leggi statali che fissano
i principi fondamentali nelle materie di competenza regionale e che trasferiscono le corrispondenti funzioni alle regioni, si configurerebbero come leggi rinforzate la cui approvazione sarebbe subordinata al parere della Commissione per le questioni regionali, integrata dai presidenti delle giunte regionali e delle province autonome di Trento e Bolzano.La forza di tale proposta sta nel suo valore pragmatico, essendo difficilmente praticabile in questo ultimo anno di legislatura la costituzione di un vero e proprio Senato federale. Inoltre attraverso l’elezione diretta, i Presidenti delle regioni saranno adeguatamente qualificati al compito di rappresentare gli interessi territoriali nel Parlamento nazionale.
Questa Commissione parlamentare, così riformata, avrebbe il compito di superare la transizione, consentendo alle regioni di agire all’interno del Parlamento stesso, contribuendo e partecipando in modo diretto alla costruzione di un più compiuto impianto federalista dello Stato.
Non può mancare a questo punto una riflessione che è al tempo stesso di metodo e di analisi politica: il progetto della Bicamerale è fallito e chi lo ha bloccato non ha pagato alcun prezzo in termini di responsabilità politica. Questo e avvenuto perché il grande processo di cambiamento in atto non ha investito i cittadini, le forze economiche e sociali rimanendo esclusivo appannaggio di pochi "addetti al lavori". Si impone ora una riflessione sul percorso da seguire. Cercare un’ampia convergenza tra tutte le forze politiche che un progetto costituente richiederebbe, ha dimostrato finora tutta la sua impraticabilità per le tensioni politiche, il confronto e lo scontro in atto. Quindi dobbiamo essere consapevoli che, se vogliamo portare a termine la riforma costituzionale entro questa legislatura, sarà necessario perseguire l’obiettivo della riforma "a maggioranza assoluta". Questa soluzione potrà comportare l’eventuale ricorso al referendum che costituirebbe un’occasione per svelare le posizioni e le responsabilità di ogni forza politica e farebbe discutere i cittadini sul contenuti della massima legge dello Stato, oggi quasi sconosciuta.
D’Alema, Maccanico, Bassanini spero siano decisi a produrre un patto di transizione costituzionale per giungere prima della prossima legislatura ad un punto irreversibile del processo di riforma. Questo si può ottenere costituzionalizzando la partecipazione dei Presidenti delle Regioni nella Commissione Questioni Regionali (unica Commissione prevista dalla Costituzione).
Con questo convegno, che vede la partecipazione del Ministro Maccanico, vogliamo contribuire, assieme a tanti altri, fra cui la Fondazione Nord-Est, ad ottenere l’approvazione della Riforma Costituzionale all’esame della Camera, per realizzare quell’ambizioso, necessario progetto federalista che questa Regione ha richiesto con forza e che costituirà una spinta alla modernizzazione e alla crescita di tutto il Paese
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Delle questioni poste o suggerite nel testo, alcune hanno avuto buon esito ( referendum, federalismo a geometria variabile, avvio della costruzione della camera delle autonomie..) altre no, come l’affidamento a Province e Comuni delle funzioni di loro competenza, che non essendo espressamente individuate nella Carta Costituzionale, che tutto trasferisce alle Regioni perché a loro volta e a loro discrezione trasferiscano ai Comuni, si presta a costruire un quadro nazionale di competenze e poteri degli Enti Locali ingiustificatamente differenziato. Di questo vizio d’origine soffre il D.L. 1545 La Loggia che non mitiga e non limita la possibilità di eventuali prevaricazioni regionali, particolarmente possibili e pericolose in assenza di un organo e una procedura di tutela ai quali i Comuni possano ricorrere.