Sempre dismissioni?

(Francesco Indovina, Firenze 26 febbraio 2012)

  1. Fa parte della politica liberista, che sebbene abbia dato pessimi risultati ancora imperversa in Europa e in Italia, la tendenza a dismettere il patrimonio pubblico, che vuol dire venderlo.
  2. Non si può escludere che parte di questo patrimonio possa, dopo attenta analisi, essere venduto, in questo caso non deve fare scandalo la sua trasformazione. Chi lo compra lo fa per i “suoi” affari, cioè la valorizzazione del patrimonio che per questo deve essere trasformato.
  3. Ma ci sono parti del patrimonio pubblico che non meritano di finire sul mercato. Le ragioni possono essere diverse, come per esempio

-         quello usato per fini propri delle istituzioni pubbliche; oggi tende a prevalere, secondo una soluzione assurda, di vendere questo patrimonio e poi restare nello stesso ma in “affitto”;

-         quello che per ragioni storico, architettonico o artistico merita di essere conservato nel suo stato attuale. Può essere anche un patrimonio che non viene direttamente usato (non tutto si può usare) ma che deve essere mantenuto;

-         quello che può sopportare una diversa destinazione d’uso ma rispettosa di alcune sue caratteristiche che rendono non appetibile economicamente il bene ai privati;

  1. Alcuni di questi beni possono essere utilizzati (nelle loro diverse forme) per una riqualificazione della città. Una riqualificazione che prende in genere due strade:

-         quella della valorizzazione privata con operazioni edilizia e di trasformazione urbanistica (il tutto reso possibile perché, non va dimenticato che i “vuoti urbani” sono dei “pieni di rendita”);

-         quella della operazione pubblica dotando la città di attrezzature o servizi di cui esiste una effettiva necessità;

  1. Questo ultimo tipo di operazione avviene sempre meno attuata con la giustificazione che mancano le risorse necessarie  (crisi dei bilanci comunali, provinciali e regionali). Risorse sia per quanto riguarda la “sistemazione” del patrimonio (che può arrivare fino al restauro), sia per la gestione del servizio o dell’attrezzatura realizzata. In astratto si tratta di una considerazione che ha motivi seri se vista allo stato di fatto, ma che può essere superata se vista in una prospettiva di trasformazione dell’organizzazione sociale;
  2. è forse tempo che si rifletta sulla forma della nostra democrazia e sul coinvolgimento della popolazione nella gestione della cosa pubblica. Non mi riferisco soltanto ai più o meno attivi processi di partecipazione alla decisione, ma a qualcosa di più direttamente connesso alla gestione  della cosa pubblica e collettiva. Intendo dire che sia come “spazio comune” che come attrezzature e servizi la disponibilità a gestire può essere un antidoto alla mancanza di risorse. La questione mette in campo questione complesse senza affrontare le quali non riusciremo a contrastare la democrazia autoritaria che si va affermando anche nel nostro paese.      
  3. Con riferimento specifico alla Manifattura Tabacchi di Firenze, si possono fare le seguenti osservazioni:

a)      si tratta di una bene di valenza storico-architettonica che merita di essere conservato nella sua struttura attuale;

b)      il progetto di trasformazione non pare rispettoso di tale principio di conservazione; del resto sarebbe difficile aspettarsi tanto dato gli operatori che  intendono intervenire nel complesso;

c)      non va assunta una relazione tra proprietà/decisione di governo della città. Il governo della città non può essere determinato dalla situazione proprietaria dei singoli complessi, esso è finalizzato al bene comune e collettivo non all’interesse privato; quest’ultimo troverà spazio per la sua affermazione solo nell’ambito stabilito dal governo della città;

d)      la Manifattura costituisce anche un simbolo del lavoro e di quello delle donne in particolare della città di Firenze. Tale simbolo può esaltarsi con un targa o con qualcosa di maggiore rilevanza. Lavoro/donna possono essere le chiave di lettura per un progetto che non solo salvi un complesso di valore, ma costituisce un polo di riferimento per il quartiere;

e)      un quartiere che merita una rivalutazione non solo fondiaria ed edilizia ma anche di strutture (sia per la socialità che per il lavoro) che mancano;

f)        il complesso, data anche la sua dimensione ben si presta per una sua utilizzazione multifunzionale.