La città sostenibile

di Francesco Indovina

Relazione al Convegno:La sostenibilità-discipline a confronto.

Cà Foscari 11-12 febbraio 2003

 

 

Agire credendo in un mito è la

caratteristica che distingue

l’uomo dagli altri esseri viventi.

Nicholas Geogescu-Roegen

  1. Premessa

Per quanto adesione entusiastica possa suscitare un mondo sostenibile, per quanto piena e diffusa sia sentimentalmente una posizione sostenibile, per quanto ragionevole sia un sistema di consumo più sobrio, tutto questo non basta, proprio perché gli obiettivi di sostenibilità sono fondamentalmente in controtendenza ai meccanismi propri del nostro sistema economico sociale. Per affermare una pur ragionevole sostenibilità è indispensabile un'azione di governo e affinché la sostenibilità dei paesi ricchi non venga pagata da quelli poveri anche di governo mondiale.

L'urbanistica da sempre ha vissuto nella contraddizione tra il suo costrutto disciplinare e gli esiti della sua azione pratica: la sua aspirazione a "costruire" una città bella, funzionante e magari giusta, si è scontrata con la realtà di una città densa di contrasti, di squilibri, di degrado; il suo tentativo di essere la terapia per la città malata e la scoperta di una patologia non addomesticabile se non molto parzialmente. Caricare sull'urbanistica anche la sostenibilità della città se fosse indispensabile, non risolverebbe ma accrescerebbe le sue contraddizioni.

Tuttavia l'urbanistica è governo delle trasformazioni urbane, non può sfuggire al suo mandato di farsi carico dei valori di convivenza che la società in qualche modo esprime, ma essa deve riportare questi valori all'oggetto di cui si occupa principalmente, la città. La sua dimensione costruttiva non può far riferimento alla sostenibilità nella città, ma alla città sostenibile. Di questo si tenterà di occuparci in questa relazione.

1. Il concetto di sostenibilità utilizzato

La bibliografia sulla "sostenibilità" e sullo "sviluppo sostenibile" dilaga e straborda dagli scaffali, un po' per moda, ma soprattutto perché la nozione non solo è ambigua, ricca di implicazioni rilevanti, di fraintendimenti e di contrapposizioni, ma anche perché mobilita interessi economici, opzioni politiche e contesti disciplinari. Le numerose definizioni che sono state elaborate (Falocco, 2002; Fregolent, 2002) danno conto dell'ampia sfaccettatura del concetto e dei principali problemi che esso pone. Con riferimento specifico alla città si e anche parlato di un ricorso ad una "formula-esorcismo" in mancanza di soluzioni (Bettini, 1996).

La questione appare particolarmente ricca di implicazioni volendo riferire il concetto di sostenibilità ad un oggetto complesso come la città. A questo fine, piuttosto che ridisegnare l'evoluzione del concetto o confrontare tra di loro le diverse definizioni, sembra più utile mettere in evidenza quali paiono le principali valenze del concetto, con particolare riferimento ad un possibile uso nei riguardi della città e, quindi, dell'urbanistica.

La prima di questa valenza, sulla quale il consenso è unanime, riguarda l'attenzione posta, in qualsiasi modo si declini la sostenibilità, alle generazioni future: "il solo modo per proteggere le generazioni future, perlomeno dal consumo eccessivo di risorse durante l'attuale abbondanza, è quello di rieducarci a provare una certa simpatia verso gli esseri umani futuri, così come siamo arrivati ad interessarci del benessere dei nostri ’vicini’ contemporanei" (Georgescu-Roegen, 1976), una proposizione che dovrebbe contraddire la "dittatura del presente sul futuro" (idem).

Questo del rapporto tra generazioni presenti e future costituisce la base fondativa di ogni punto di vista sostenibile ("Per sviluppo sostenibile si intende uno sviluppo che soddisfi i bisogni del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri", Onu-Wced, 1987).

Prescindendo dai nuovi paradigmi etici (Dellavalle, 2002) che tali proposizioni implicano, e senza volere entrare nella discussione sui "limiti" delle risorse, ma assumendo che, pur con tutte le considerazioni ottimistiche circa gli sviluppo tecnologici, esista un limite oggettivo delle risorse disponibili, queste definizioni mettono in relazione gli effetti del godimento delle generazioni presenti con quello possibile delle generazioni future.

Sia che si guardi alla situazione nazionale e, a maggior ragione, a quella mondiale non si ha l'impressione che "siamo arrivati a interessarci del benessere dei nostri vicini contemporanei", né sembra che la simpatia verso le generazioni future sia così generalizzata. La dittatura del presente sembra avere tale rilevanza da ostacolare l'affermarsi del principio di sostenibilità e delle relative politiche (per quel poco che si fa). Tuttavia se qualche spiraglio si intravede, ciò sembra dipendere dal fatto che il futuro disastroso (effetto dell’indifferenza nei riguardi della sostenibilità e per le condizioni dell'ambiente), si presenta sempre più prossimo fino ad essere, in un certo senso, il futuro delle stesse generazioni "presenti".

La seconda valenza sulla quale richiamare l’attenzione è quella dell’equità, un nodo non eliminabile della sostenibilità interpretata non solo dal punto di vista dell’ambiente ma anche della società umana (Indovina, 2002). Già nel rapporto tra generazioni presenti e future sarebbe insito il principio dell’equità, e ciò anche se vaga rimanesse la definizione del numero delle generazioni future alle quali garantire un adeguato stock di risorse, a meno che non si optasse per la posizione più fondametalista che suggerirebbe di non consumare nessuna risorsa che non fosse rinnovabile (il che porterebbe fuori dal quadro delle "risorse" quelle non rinnovabili).

Le differenze di disponibilità di beni, o quelle tra i well-being (lo star bene), che è la misura più raffinata elaborata da Sen (1984) per misurare le differenze di benessere tra le diverse popolazioni e persone che comprende oltre alla disponibilità di beni, anche le opportunità e la libertà di realizzarsi, nel mondo non sono diminuite, milioni di persone muoiono ogni anno di fame, hanno delle bassissime opportunità e nessuna libertà di realizzarsi. Non si crede che sia necessario portare della documentazione statistica in proposito, inoltre la globalizzazione, non vorrei portare anche in questo caso nessuna testimonianza testuale, non aiuta ad equiparare le diverse situazioni mondiali e sociali.

Del resto, a meno di non volere qualificare con un specificazione il concetto (sostenibile per chi), la sostenibilità dovrebbe valere per tutti, e, rifiutando ogni miracolistica instantanietà, va pensata come un processo che si muove verso una equità di condizioni per mezzo di azioni coerenti.

In questa prospettiva si assume che una delle valenze di cui tenere conto sia proprio quella dell’equità sociale; una prospettiva sostenibile, quindi, dovrebbe tendere ad affermare l’equità sociale.

Sia l’attenzione all’equità sociale che quella alle generazioni future presuppongono un atteggiamento altruistico e un’etica della responsabilità e comunque una cooperazione. Jervis (2002) ha recentemente indagato gli elementi costitutivi della nostra psicologia che ci porterebbero a cooperare e ad essere altruisti oltre la cerchia ristretta dei rapporti affettivi: "La spiegazione più semplice è anche la più importante, benché possa sembrare generica. L’uomo non è un essere asociale, né guidato solo dall’interesse individuale immediato. Il bisogno di fairness, di <equità gentile>, oppure anche – ed è quasi la stessa cosa – la tendenza pura e semplice all’altruismo , sono innati in chiunque di noi. Noi poniamo in atto questa tendenza, più o meno in tutte le circostanze, perché il farlo è adattativo". In sostanza abbiamo ereditato questo atteggiamento che è il risultato di una selezione che ha premiato quelli che "erano più spontaneamente cooperativi". Alla base c’è un atteggiamento di fiducia e l’attesa di reciprocità, sebbene come afferma lo stesso Jervis, "altre teorie non contrastano con questa spiegazione ma criticano il suo eccesso di riduzionismo. E infatti, è probabile che in tutta la faccenda entrino in ballo varie altre dinamiche"; si può assumere che un atteggiamento altruistico e cooperativo sia "generale", questo, tuttavia non elimina la "defezione" di singoli membri della collettività, in determinate circostanze. La teoria dei giochi e lo studio dei comportamenti tra i giocatori ha messo in evidenza le condizioni specifiche nelle quali si attua una strategia di cooperazione o di defezione (si possono vedere a questo proposito tra gli altri: Rusconi, 1989 e Gambetta, 1989).

Il problema, tuttavia, presenta un grado maggiore di difficoltà quando l’atteggiamento cooperativo e altruistico determinerà le sue conseguenze nelle "generazioni future", in questo caso viene a mancare l’attesa di una reciprocità e soprattutto manca la fiducia che gli altri si comportino di conseguenza, per questi motivi la defezione risulta maggiormente praticata.

In queste circostanze per realizzare gli obiettivi di sostenibilità e per facilitare e promuovere la cooperazione in tale direzione, si deve articolare la strumentazione: si può far conto sulla possibilità che si manifesti una spontanea tendenza alla cooperazione (fiducia) ma si devono anche predisporre strumenti imperativi, da una parte, e premianti l’interesse personale, dall’altra parte. In sostanza si deve articolare l’azione pubblica sia per evitare (per quanto possibile e in misura non determinante) la defezione, sia per evitare il "profittatore" (che beneficia di un bene pubblico senza contribuire al suo costo di produzione – Taylor e Ward, 1989).

Il caso della politica sostenibile appare come un caso esemplare: essa prevede la cooperazione (in forme diverse secondo le questioni specifiche), tutti dovrebbero cooperare sulla base di una reciproca fiducia, di tale cooperazione beneficeranno tutti; tuttavia una certa quota di defezione, variabile secondo gli specifici casi, anche se teoricamente non potesse incrinare la realizzazione degli obiettivi, potrebbe determinare, per effetto della percezione dell’esistenza di defezioni o di profittatori, sfiducia e un processo cumulativo di non cooperazione e quindi di fallimento degli obiettivi. Si impone, quindi, una necessaria attivazione di strumenti che pur puntando sulla cooperazione attivi meccanismi imperativi e premianti per evitare (o mantenere al minimo accettabile) defezioni e profittatori. Infatti non solo bisogna scontare comportamenti non cooperativi ma questi debbono essere addebitati non tanto ad atteggiamenti asociali (anche questo) ma ad una diversa considerazione del concetto di "interesse di tutti", la cui percezione dipende da molti fattori (culturali, di educazione, di esperienza di vita, ecc.) e soprattutto dalla collocazione nel meccanismo di produzione sociale che determina una differente valutazione dei costi e dei ricavi.

Appare forviante e destina la sostenibilità al fallimento, presentarla come determinante un sacrificio dei livelli di benessere. È evidente come in questo contesto sia presente, pesantemente, una questione culturale, ma è altrettanto evidente che se la sostenibilità deve richiedere a tutti una modifica dello "stile di vita", quello nuovo deve essere effettivamente migliore o almeno non peggiore del precedente e percepito come tale: posso cambiare lo stile di vita ma non la qualità della vita (anche se quest'ultima può essere valutata in modo differente in ragione del mutamento dello stile di vita). La richiesta dell'abbandono o della rilevante riduzione dell'uso del mezzo di trasporto individuale, per esempio, non può non essere accompagnato dall'offerta di mezzi di trasporto collettivi che siano efficaci e comodi, ma questa relazione ha implicazioni molto complesse in termini di costi aggiuntivi e di risparmi che non paiono risolvibili nel quadro di riferimento istituzionale ed economico attuale, la qual cosa rende di fatto difficile la concreta attuazione di soluzioni sostenibili.

La questione mostra ulteriori complicazioni quando una politica di sostenibilità oltre a generare benefici complessivi per la comunità, determina benefici particolari per singole imprese; il riferimento banale in questa direzione è al ripetuto slogan, non molto riflettuto, "l'ambiente può essere un business". Il caso dei rifiuti urbani, da questo punto di vista sembra esemplare (Viale, 1994). Si può sicuramente concordare che il riciclaggio appartenga alla sfera delle politiche sostenibili, fatta nei modi dovuti esso comporta un beneficio per la collettività su piani diversi, dal risparmio di risorse, alla salvaguardia del territorio, inoltre, questo è un aspetto particolarmente interessante del ragionamento, esso è anche un'attività economica, cioè produce profitti per l’impresa. In modo del tutto incoerente il riciclaggio è stato strettamente collegato alla raccolta differenziata; si può convenire, infatti, che si tratti di due "operazioni" diverse, che appartengono a due diversi processi, anche se uno facilita l'altro. Ma è proprio su tale "facilitazione " che si deve riflettere, infatti la raccolta differenziata ha spostato un’attività lavorativa dall’impresa di riciclaggio alle famiglie (una raccolta non differenziata renderebbe possibile il riciclaggio dopo un lavoro di differenziazione dei rifiuti). Ma a questo punto sorge un problema: si è di fronte ad un beneficio collettivo (risparmio di risorse, ecc.) e un beneficio per l’azienda (minori costi e più guadagni) che deriva anche dall’attività lavorativa sui rifiuti operata dalle famiglie. Risulta non immediata la possibilità di verificare se le "tariffe" di raccolta dei rifiuti scontino questo lavoro familiare, o piuttosto sono attente alla redditività dell’azienda; nel caso di un’azienda municipale ci si potrebbe disinteressare del problema sulla base dell’ipotesi che i minori costi o i maggiori guadagni di questa azienda confluiranno, in qualche modo, nel bilancio consolidata dell’amministrazione pubblica, quindi con una vantaggio generale, nel caso, secondo l’opzione oggi prevalente, si fosse di fronte ad un’azienda privata i membri della collettività potrebbero essere portati alla defezione ove non fossero partecipi, in forme differenziate ma esplicitate, dei benefici prodotti dalla loro prestazione lavorativa.

A questo punto si vorrebbero fissare, facendo riferimento a quanto detto in precedenza, gli elementi che è possibile ricavare dal concetto di sostenibilità, elementi che si cercherà di applicare alla città:

Inoltre per realizzare questo obiettivo ed evitare sia defezioni che profittatori si deve far riferimento a:

2. La città

La città può essere definita da molti punti di vista tuttavia di seguito si farà riferimento esclusivamente agli aspetti che sembrano rilevanti in relazione al tema della sostenibilità.

Con "nicchia ecologica" si intende indicare quel particolare ambiente all’interno del quale una determinata specie (animale o vegetale) trova condizioni di vitalità; non la mera sopravvivenza, ma piuttosto le migliori condizioni per lo sviluppo ed evoluzione della specie. Una "nicchia ecologica" non è un ambiente completamente "amico", cioè privo di "difficoltà" per quella determinata specie, ma piuttosto un ambiente che presenti "ostacoli" in grado di sviluppare nuove capacità e di incentivare la sopravvivenza. E’ solo quando tali ostacoli si presentino insuperabili che quel determinato ambiente non è più la "nicchia ecologica" per quella specie (la quale si estingue).

Pare sia possibile affermare che la "città" possa (o piuttosto debba) essere considerata la "nicchia ecologica" della specie umana. Un’affermazione che, fatti i debiti distinguo, si può considerare qualcosa di più di una mera similitudine.

Nonostante gli elementi negativi che si possono (e di devono) individuare nella condizione urbana, nonostante lo sviluppo di tecnologie che in astratto potrebbero determinare l’obsolescenza della "condizione urbana", sembra rilevarsi l’esistenza di un grande bisogno di città, una sorta di imperativo dell’esistenza (Indovina, 1989; 1990).

Si intende sostenere, un po’ banalmente, che lo sviluppo e l’evoluzione dell’umanità sia stato, storicamente, legato strettamente alla "vita urbana" (come questa si concretizzava nelle diverse fasi storiche) e, ancora, che il futuro della specie pare fortemente condizionato dal mantenimento e dall'estensione della condizione urbana.

C’è un punto che merita riflessione: la città non è prodotto esogeno alla specie, è essa stessa il risultato di una "invenzione" (sociale); come se l’umanità avesse, essa stessa, creato la nicchia all’interno della quale l’evoluzione sarebbe stata non solo assicurata ma anche più dinamica.

Contemporaneamente la città, in quanto tale, genera un'entropia crescente e tale da incidere negativamente sulla nicchia. Per evitare questo evento catastrofico la soluzione non sta nella "fuga dalla città", ma piuttosto nel lavorare sulla città, al fine di garantirne la sopravvivenza come nicchia ecologica. Un’entropia fuori da ogni controllo e la fuga dalla città possono dare, nel lungo periodo, lo stesso risultato.

La concentrazione (di popolazione, di cultura, di capitale, di produzione, di servizi, ecc.) caratteristica prima della città, costituisce il punto di forza e di coagulo delle energie dinamiche, ma, contemporaneamente, in questo sta la vitalità della città, essa genera l’addensarsi delle contraddizioni e l’emergere dell’organizzazione delle forze (sociali, culturali e tecniche) che, di volta in volta esprimono l’esigenza del cambiamento.

Questa situazione ha assunto caratteristiche proprie con l’affermarsi del capitalismo e della democrazia: si sono moltiplicati gli strumenti di dominio e si sono sviluppati strumenti di tipo ideologico (la città di tutti, per sintetizzare) tesi a coprire e a fare accettare la reale condizione urbana, fatta di esclusione, di differenziazione, di emarginazione, di privilegi territoriali; ma il contenuto di tale ideologia (la città di tutti) ha alimentato una domanda politica e ha contribuito a "produrre" soggetti antagonisti. La domanda politica di trasformazione insita in questa situazione ha costituito un potentissimo fattore di continua trasformazione della città.

La città, con il suo brulicare di "forme" sociali costituisce il centro focale dell’esperienza individuale. La dialettica individuo/collettività può essere assunto sia come un fattore di continua "civilizzazione" che, nel suo persistente contrasto, come elemento della dinamica sia collettiva che individuale.

E’ nella città che l’individualità è stata "riconosciuta", ma è anche al suo interno che questa individualità è entrata in comunanza con altre individualità e si è fatta "società": luogo dell’evoluzione, della crescita culturale, dell’espressione della volontà e possibilità di evolvere. L’individuo ha trovato le opportunità ma anche gli "ostacoli" per superare i quali è stato costretto, a livello individuale e sociale, a trovare soluzioni coerenti, miglioramenti organizzativi, visione alte della prospettiva. E’ la "città" aperta che ha esaltato questo meccanismo, aperta verso nuove forme organizzative, aperta verso nuove scoperte, aperta verso nuove tecnologie, aperte verso nuove soluzioni collettive.

E’ stata la città il luogo nella quale la cultura si è fatta anche ricerca scientifica e tecnologia, dove si sono sperimentate le nuove forme della produzione e i nuovi prodotti. La città, in quanto tale, ha sperimentato, quasi per prima, le possibilità offerte dalla tecnologia, ed è nella città che la modernità ha prodotto la grande rivoluzione tecnologica e sociale e contemporaneamente ha accentuato fortemente le possibilità di dominio dell’uomo sull’uomo e dell’uomo sulla natura. Ma è anche nella città che la traiettoria oppressiva e di dominio della modernità ha trovato il suo ostacolo: non solo nel pensiero evolutivo e fondato socialmente, ma anche nella crescita della domanda politica e nello sviluppo di un antagonismo che opponeva al dominio l’equità e l’eguaglianza, e che oggi oppone un punto di vista più attento nei riguardi dell’ambiente.

Non è casuale che i movimenti antiurbani sono sempre risultati fortemente venati da conservatorismo: il rifiuto non era per la "condizione" urbana, ma per gli elementi evolutivi insiti nella condizione urbana.

Queste affermazioni non intendono negare i "difetti" della realtà urbana (si è parlato, anche, del "male" città, Calabi, 1979), ma piuttosto tendono a riconoscere che, nonostante carenze, brutture, anche violenza, la città ha costituito la forma dell’organizzazione che ha promosso evoluzione e progresso, la stessa tensione per il superamento dei "difetti" della città ha costituito un rilevante fattore di evoluzione e crescita (anche Jones, 1993).

E’ anche vero che la città produce, essa stessa, per così dire, punti di rottura; si manifesta, cioè, come insopportabile (il che giustifica il sorgere di movimenti antiurbani). Ma che cosa la rende insopportabile? non tanto la sua disorganizzazione, il suo degrado, la violenza, ecc. (l’elenco di volta in volta potrebbe essere lungo e alternare voci diverse), cioè la sua condizione, ma piuttosto, l’affievolirsi della tensione per la sua trasformazione. Quando prevale, cioè, il convincimento che sia impossibile la sua trasformabilità, allora la condizione urbana diviene insopportabile: la città viene rifiutata. Non è questione, quindi, che attiene alla condizione specifica della città, alla sua materialità, ma piuttosto alla "politica", al suo governo.

L’invivibilità di una specifica città non è determinata tanto dai suoi problemi, dalle sue carenze, dai suoi "mali", ma dall’assenza di progetti credibili, dall’assenza di una mobilitazione (non importa la forma) sociale, da una collettiva ignavia, o per lo meno dal prevalere di un sentimento non tanto di impotenza quanto di inutilità e di immobilità. Se non fosse così sarebbero le città peggiori dal punto di vista "funzionale", per così dire, ad essere rifiutate e abbandonate, mentre l’esperienza insegna che non è così.

Quando si attribuisce il rigetto della città alla "politica" si fa riferimento a molte cose, qui, tuttavia, ci si riferisce a quella più specificatamente legata alla città, cioè al "governo urbano".

Il "governo urbano" (compresa la pianificazione) non può che essere assunto come governo delle trasformazioni urbane (Indovina, 1997.). Questa terminologia, mi pare, esplicita tre questioni tra di loro differenti ma fortemente integrate. La prima ha a che fare con la dinamica urbana: la città non è statica, essa si presenta come un costrutto sociale in continuo movimento. Le pratiche sociali, espressioni individuali o aggregate, di interessi parziali costituiscono gli elementi di questo dinamismo; ogni soggetto "approfitta" facendo il proprio parziale interesse, e attraverso questa realizzazione promuove il dinamismo della città. La seconda ha a che fare con l’antagonismo che si crea tra, appunto, la realizzazione degli interessi parziali e l’interesse generale per la città: la città non può essere una somma di parzialità, essa si presenta come condizione generale non solo per l’uso che ne fanno gli abitanti ma anche per tutte le attività che vi si svolgono. Un punto di vista "generale", non costituisce l’affermazione di una ideologia, ma una vera necessità: la dialettica parzialità/generalità è, tra l'altro, la sola condizione che permetta agli interessi parziali che superano, per così dire la selezione, di realizzarsi. E’ in questo quadro che subentra, e siamo alla terza questione, il governo, cioè l’azione pubblica, che a partire da un progetto di città, una intenzionalità, nel linguaggio che si preferisce (Indovina, 1994), piega le parzialità ad un fine generale; assume cioè gli elementi dinamici non in se stessi, ma come motori della trasformazione urbana la cui finalizzazione non può che essere una prospettiva scelta (politicamente).

E’ proprio quando questa intenzione politica, capace di mobilitare soggetti e forze, di indicare progetti e realizzazioni, di cogliere le esigenze prioritarie, di affermare principi di equità e eguaglianza, viene a mancare che la città perde la sua attrattività. Non si tratta di imporre un modello di città, la "presunzione fatale" (von Hayek), ma piuttosto affermare che la sua continua transizione non può avvenire senza guida, non l’utopia di una "città del sole" in una società tempestosa, ma, piuttosto avere attenzione alla contraddizione vitale, rappresentata dalla città, dove la realtà è osservata criticamente e non accettata.

In questo contesto la città diventa anche lo strumento politico di un "risarcimento sociale" dei ceti più deboli (Indovina, 1999). Storicamente si può constatare che è "nella" città che prevalentemente, anche se non esclusivamente, che i diseredati trovano qualche conforto.

La locuzione "risarcimento sociale" fa riferimento non solo agli aspetti materiali, ma anche a quelli culturali e delle opportunità di socializzazione allargata che la città offre. Questo, ovviamente, non vuol disconoscere le forti discriminazione che anche all’interno della città persistono (il cammino dai diritti formali a quelli sostanziali e lungo, accidentato e anche reversibile), ma piuttosto guardare a queste anche con l’ottica del cambiamento.

Lo sviluppo dei "servizi collettivi", per esempio, se da una parte è inerente ai meccanismi di "risarcimento sociale" dall'altra ha determinato nuove condizioni di discriminazione. Così come le infrastrutture possono essere considerate le "condizioni generali" (Folin, 1978) per lo sviluppo delle forze produttive, e in quanto tali di rilevante impatto sulla città, i servizi sociali e collettivi costituiscono le "condizioni generali" del processo di integrazione sociale. Nell’uno e nell’altro caso non si tratta di processi privi di contraddizioni.

Né può essere disconosciuto l’aspetto del "patrimonio" urbano come "memoria" attiva: "la dimensione della memoria, più specificatamente la memoria urbana, che lungi dal ripiegarsi in modo statico ed inerte sul suo passato, presuppone e implica il suo doppio, in questo caso rappresentato dal progetto, il progetto urbano" (Ferriera, 2002. corsivi nel testo; anche idem, 2000 e 2001). In sostanza il progetto di città, anche sostenibile, non può non fare i conti con il suo patrimonio storico assunto con tutti gli elementi di rigidità che la conservazione della memoria impone.

In epoca più recente è di molto cresciuta la necessità di relazioni tra le città, non si tratta di una novità ma piuttosto di un ragguardevole incremento. Non bisogna farsi prendere la mano dal rigetto provocato dalla retorica delle relazioni e della costruzione delle "reti di città", per rifiutare di guardare un fenomeno che, pur nella sua articolazione, genera nuove relazioni territoriali e nuove forme di organizzazione dello spazio (Dematteis, 1997). In sostanza si intrecciano, nella riflessione teorica e nell'osservazione dei processi, due differenti fenomenologia, quella della "concorrenza tra città" e quella delle "reti di città" (Indovina, 2001), vale la pena di sommersasi brevemente su queste due questioni che oggi, anche se in modo non omogeneo, caratterizzano la condizione urbana.

La "concorrenza tra città" fa riferimento alla capacità della città di attirare investimenti privati esterni, nell’ipotesi che tali investimenti scelgano il loro insediamento in relazione ai vantaggi comparativi offerti dalle diverse città.

Senza voler affrontare le complesse questioni che questa ipotesi sollecita si vorrebbero mettere in evidenza i fattori "urbani" in grado di costituire gli elementi fondativi di tali vantaggi comparativi.

La "qualità urbana" costituisce un rilevante fattore di "richiamo", poiché i manager vogliono vivere in ambienti urbani di qualità (il che sembra una banalità) e le imprese mettono al primo posto la soddisfazione dei manager (il che è un po’ meno ovvio). La "qualità urbana" è prima di tutto la funzionalità (ordinata, priva di conflitti, bene amministrata, con una buona capacità di mobilità, ecc.); dotata di attrezzature di buona qualità per il tempo libero (teatri, cinema, biblioteche, gallerie, mostre, ecc.); non va dimenticata l’amenità del sito, meglio se dotata di una immagine internazionale e di luoghi vicini di notevole prestigio; un sistema di collegamento a medio e lungo raggio efficiente e comodo (aereo, automobilistico e ferroviario). Dal punto di vista economico-produttivo appare essenziale la disponibilità di manodopera (meglio se a basso prezzo e svincolata da rigidità), istituzioni finanziarie efficienti, enti di ricerca, imprese di "servizi", un’alta capacità di mobilità commerciale, ecc.

Da questa sommaria caratterizzazione risulta evidente che sono poche le città che presentano tutti questi elementi insieme e che si tratta di caratteristiche che interessano solo poche imprese. Ma, appunto, si argomenta, l’esistenza di condizioni "rare" e il numero limitato di investimenti, suggerisce l'esistenza di una forte "concorrenza tra città".

Ma data questa situazione non è casuale che la "concorrenza" si esercita non tanto per attrarre investimenti produttivi ma, piuttosto, per accaparrarsi agenzie di organismi internazionali (ONU, EU, BIT, ecc.) o manifestazioni di carattere internazionale (Expo, campionati del mondo di qualche sport, ecc.)

Va inoltre osservato che un’eventuale teoria del "mercato delle città" non potrebbe che registrare una situazione di oligopolio: sono poche cioè le città che (storicamente) hanno la caratteristica di concorrere tra di loro per l’acquisizione di investimenti privati, o per accaparrarsi eventuali eventi o agenzie. E come accade in tutti gli oligopoli, entrare nel ristretto club è possibile ma non è facile.

Va segnalato tuttavia che esiste una concorrenza a livello micro, cioè in ambiti territoriali ristretti, e che questa non si gioca tanto sulla "qualità", quanto piuttosto sulla "disqualità", cioè sull'esistenza di minori vincoli, per esempio ambientali, per una maggiore libertà edificatoria, per un minoro costo legato a più bassi contributi per la realizzazione degli standard e attrezzature, ecc. Da questo punto di vista una città che facesse una politica di qualità (sostenibile) potrebbe essere penalizzata rispetto ad una città vicina indifferente, per esempio, all'ambiente.

Per quanto riguarda la costruzione di relazioni strette tra città (le reti) queste mettono in evidenza la riduzione, non la scomparsa, delle gerarchie territoriali.

Dal punto di vista dei macro-spazi le "città" (che contano) sono da sempre in rete (anche se sulla base di diverse tecnologie) e tali collegamenti non influenzano che modestamente le relazioni locali e la struttura territoriale. Diversa e più interessante la questione si presenta nei riguardi dei micro-spazi (regioni), anche se fosse poco realistico ipotizzare un unico modello di comportamento.

L’osservazione mette in luce che, sia nei territori "metropolitani" che in quelli a diffusa urbanizzazione, le relazioni (funzionali, economiche, culturali, sociali, ecc.) non sono più monocentriche, unidirezionali e gerarchicamente organizzate, ma orizzontali tra centri di diverso peso e dimensione, ciascuno dei quali, oltre ad essere un "mondo a sé", intrattiene strette relazioni con gli altri non in base alla "concentrazione" (di popolazione, funzioni, ecc.) ma piuttosto in base ad una organizzazione spaziale di specializzazione funzionale articolata nello spazio.

La città è anche costituita dal suo "ambiente" fisico, che costituisce uno dei fondamentali elementi della "qualità urbana"; non si vorrebbe dare l'impressione di sottostimarne l'importanza, si sono maggiormente sottolineati gli altri aspetti, gli elementi caratterizzanti, perché con riferimento alla sostenibilità questi, molto spesso, vengono sottovalutati eleggendo l’ambiente a unico determinante. Si può dire che l’ambiente, che connota la città, non può non attrarre la massima attenzione ma nel contesto di un oggetto non solo complesso, non solo dalle molteplici sfaccettature, ma, soprattutto, quale fondamentale costruzione per l’evoluzione della specie umana.

In relazione agli aspetti ambientali, di grande rilievo ci pare far riferimento ai fondamenti scientifici dell’ecologia urbana (Bettini 1996, Hruska, 2000), piuttosto che a semplificazioni o estremizzazioni. E’ proprio collocando nella sua giusta dimensione l’aspetto ecologico della città, in dialettica coniugazione con gli altri aspetti che le nostre città possono rafforzare la loro caratterizzazione e insieme fornire contributi significativi per evitare il deterioramento dell’ambiente. In questo quadro di rilievo ci pare il concetto di metabolismo urbano (Wolman, 1965), cioè il bilancio tra i flussi di materiale ed energia che entrano nella città e le emissioni e rifiuti che escono dalla città, bilancio che permetterebbe anche di misurare l’apporto locale all’inquinamento atmosferico (Onufrio e Gaudiosio, 1990) e a tutte le altre forme di inquinamento (ancora Bettini, cit).

 

3. La città sostenibile

Sulla base di una rigida interpretazione del concetto la città non è sostenibile: "la città è il luogo della vita umana organizzata in cui la crescita dell’entropia è massima" (Cecchini, 1999). Nella città, infatti, si ha una situazione di rilevante consumo e spreco di risorse (anche non rinnovabili), la produzione di inquinamento e di entropia, il massimo consumo dell’ambiente (Scandurra, 1995).

È ovvio, ma merita essere sottolineato, che non è l’entità astratta "città" a produrre tale entropia, ma le azioni, di tutti i tipi, che gli uomini e le donne dentro questa organizzazione svolgono per realizzare i loro obiettivi. Si potrebbe avanzare l’ipotesi che la densità sia un moltiplicatore, nel senso che i "danni" ambientali prodotti da tutte le azioni che si svolgono in modo concentrato nella città se si svolgessero in modo diffuso, sarebbero inferiore. Di questo si discuterà più avanti, tuttavia va osservato e tenuto da conto che oltre un certo limite la dispersione vanifica il contenuto urbano.

Può essere di qualche interesse, affrontando il tema della città sostenibile, prendere le mosse dal Libro verde sull’ambiente urbano, predisposto dalla Commissione delle Comunità europee (riportato anche in Salzano, 1992). In questo documento si può ritrovare una descrizione della problematica urbana assimilabile a quella sviluppata nel paragrafo precedente, e linee di indirizzo coerenti con tale descrizione. È, anche, possibile cogliere una particolare tensione verso aspetti specificatamente "ambientali", questo fattore, tuttavia, non sembra mettere in discussione la funzione sociale della città. Inoltre, l’affermazione secondo la quale "la protezione delle risorse ambientali sarà la precondizioni di base per una sana crescita economica" sembra condivisibile ove il concetto di "protezione delle risorse ambientali" sia inserito in un contesto che faccia riferimento alla qualità urbana, intesa come "la compresenza di più elementi: un ambiente naturale, un sito, piacevole e interessante; una varietà di occasioni di interesse culturale; consolidate nella presenza fisica di monumenti e luoghi storici ben conservati e civilmente godibili e nella presenza organizzata di istituzioni culturali ben funzionanti; un’attrezzatura urbana efficiente, che consenta al cittadino di accedere con facilità e comodità ai luoghi urbani e di fruire dei servizi collettivi, pubblici e privati, tipici di una società evoluta" (Salzano 1992b). Una definizione assolutamente accettabile ove non fosse stata tralasciata, forse perché ovvia, anche la condizione di produzione di ricchezza affinché i cittadini potessero godere di tale qualità.

Il riferimento alla "capacità di carico" delle regioni di insediamento delle città è un motivo ricorrente in quasi tutti i saggi che trattano della città sostenibile (Stern, White, Whitney, 1992), e dove, generalmente si riconosce alla città preindustriale un giusto equilibrio, mentre la rivoluzione industriale e l’avanzamento tecnologico sono individuati come i maggiori responsabili della rottura di tale equilibrio.

Si possono costruire elaborate matrici da cui risulti, si direbbe inevitabilmente, che le attività che si svolgono nella città producono impatti (locali, regionali e globali) in ragione dell’uso delle risorse e delle emissioni (Alberti, Solera, Tsetsi, 1994; Vernetti, 1994); in sostanza la insostenibilità ambientale della città è messa in evidenza da ogni punto di vista.

Non si vuole contestare questo punto di vista, ma la città non è solo "natura", è per questo che l’ecosistema urbano viene assunto come simile "ad un ecosistema in transizione" (Vernetti, cit), la cui dinamica è determinata dall’azione dell’uomo, dalla reazione degli elementi naturalistici e dal reciproco condizionamento. Un approccio realistico se da una parte deve rifiutare una concezione riduttiva dell’ambiente (come dominato dall’uomo, come supporto, ecc.) dall’altra non può imporre forme di organizzazione sociale che siano compiutamente condizionati dalle determinanti dell’ambiente, per quanto poeticamente possono essere descritte tali situazioni, non solo ma un punto di vista prevalentemente ambientale genera situazioni che possono ripugnare alla coscienza comune.

Se la parola chiave per descrivere la realtà sulla quale dovrebbe intervenire la sostenibilità fosse interdipendenza, la sua coniugazione dovrebbe far capo alla città come in precedenza definita. La città, si è detto, è anche il luogo principale della dinamica ed dell’innovazione sociale, questo da una parte suggerisce che l’attenzione deve essere posta alla dinamica e dall’altra parte permette di prospettare cambiamenti, anche profondi, determinati sia da avanzamenti scientifici e tecnologici, sia da innovazione nell’organizzazione sociale, sia da adattamenti e modifiche negli stili di vita. In sostanza dinamica e innovazione caratterizzano la città.

Non è, quindi, possibile rifiutare le conoscenze che vengono dall’avanzamento della scienza e dalla tecnologia in ragione di una presunta superiorità dei saperi tradizionali, dei saperi locali, che sono connotati da conservatorismo; così come non pare accettabile il rifugiarsi in una presunta "identità locale" per contrastare i processi di omologazione sociale, esaltando i così detti modelli di vita "a dimensione umana" ma il cui contenuto è spesso legato ad una tradizione non di progresso; o ancora valorizzare le "società locali" come socialmente coese mentre molto spesso esse risultano chiuse nel loro egoismo e segnate da processi di sviluppo degradato sul piano ambientale e sociale.

La modernità ha consegnato alle nostre coscienze una nozione universalistica ed egualitaria dell’individuo, tanto che il potere sociale ed economico che dettava scale gerarchiche, differenze, ineguaglianze ("ciascuno al posto suo"), ha trovato un "ostacolo" (più o meno forte, in dipendenza della situazione economica, politica e rapporti di forza) nell’attuazione di tali suoi progetti proprio in questa coscienza generalizzata, determinando campi di conflitti che avevano e hanno come riferimenti i diritti di cittadinanza dei singoli, una concezione egualitaria della società e la responsabilità collettiva (politica) della qualità della vita (intesa in senso ampio).

La tecnologia e nuovi avanzamenti scientifici non solo possono essere utilizzati per rendere migliore il funzionamento della città ma anche per raggiungere obiettivi di sostenibilità. Del resto la possibilità, per esempio, di modificare le fonti di energia (utilizzando soprattutto l’idrogeno) si fonda su avanzamenti tecnologici non di poco conto; che poi, per raggiungere la sostenibilità, le nuove tecnologie si sommino ad un sapere "antico", come per esempio una più adeguata esposizione degli edifici, non fa che confermare che gli obiettivi che ci si pone devono poter utilizzare tutte le conoscenze disponibili (Butera, 2002).

Bisogna inoltre osservare che se fosse vero che la città costituisce il motore dell’innovazione e della crescita culturale, allora si deve riflettere sul fatto che la speranza dell’affermarsi della sostenibilità, che costituisce sicuramente un modello di vita più avanzato, risiede tutta nella città, nonostante che la città di per sé sia insostenibile ( Diappi, 2000).

Si può provare a definire la "città sostenibile" come quella che permette di tramandare alle generazioni future questa invenzione sociale, ma per fare questo la città dovrebbe oggi realizzare le sue migliore promesse mentre invece la sua decadenza appare come elemento vistoso (Cervellati, 1991). Se dovessimo scegliere di fare qualcosa per affermare la sostenibilità della città dovremmo prima di tutto tentare di realizzare le promesse insite in questa invenzione sociale.

Se, come è stato messo in evidenza in precedenza, l’affermarsi del concetto di sostenibilità fosse connaturato ad un’opzione altruista e generosa, allora bisognerebbe affermare con forza che l’esistenza della città è legata all’accettazione di un interesse generale. Che si tratti di una concezione desueta, pare evidente, in generale si è assunto verso l’interesse generale un atteggiamento critico e, soprattutto, opportunistico: esso vale fino a quando non tocca l’interesse particolare del singolo, o del singolo gruppo. Eppure nella città si scopre con durezza che la sua funzionalità, detto in modo banale, è condizionata dalla modalità e forza con le quali si è (o non si è) affermato l’interesse generale.

Il primo passo verso la "sostenibilità urbana" è quindi quello di riconoscere nella città un "bene pubblico" e un "bene sociale" e far discendere da tale riconoscimento le conseguenze relative.

Ma proprio in questo snodo si colloca la necessità della riconquista della colloqualità urbana, cioè della possibilità che la città sia l’occasione e insieme lo strumento della socializzazione, dell’incontro, dello scambio di esperienze, ecc. Non si afferma che oggi questo non avvenga, solo che avviene non per mezzo della città, ma, piuttosto, nella città. La colloquialità urbana, cioè, riesce ad esercitarsi non già nello spazio "libero" della città, ma soprattutto in luoghi "selettivi", una selezione operata molto spesso dal mercato, quindi in modo discriminato. Ma questo fenomeno è da una parte il risultato, da una parte, dell’abbandono (pratico) della città come "bene pubblico" e, dall’altra parte, del degrado che caratterizza, ormai, lo spazio pubblico. Le modeste teorizzazioni secondo le quali lo stile di vita contemporaneo ha depotenziato la funzione dello spazio pubblico vengono contraddette, come l’esperienza fa toccare con mano, ogni qualvolta si rida dignità funzionale ed estetica ad uno spazio pubblico: quello che era prima uno spazio pubblico inutilizzato diventa immediatamente una densa polarità di socializzazione. L’abbandono da parte dei cittadini dello spazio pubblico è una diretta conseguenza del degrado di tali spazi, non una scelta di una diversa modalità di vita (Indovina, 2002). Tra gli spazi pubblici va considerato anche il "verde urbano", che costituisce un determinate non marginale del paesaggio urbano (Migliorini, 1989) soprattutto nella sua forma fruibile (parchi, giardini, campi sportivi, ecc., sebbene questi spazi svolgono la funzione anche di "servizi collettivi". Si vorrebbe suggerire una relazione tra sostenibilità urbana e qualità degli spazi pubblici, verde compreso, quale elemento dell’affermarsi della città come strumento della socializzazione.

Un secondo passo verso la costruzione della città sostenibile è, quindi, la riqualificazione degli spazi pubblici.

Il "risarcimento sociale", richiamato a principio e individuato come una delle caratteristiche della città, trova la sua concreta applicazione da una parte in una sostanziale equiparazione delle diverse parti della città e dall’altra da una affermazione dinamicamente positiva dei diritti di cittadinanza. I diritti di cittadinanza devono riguardare anche gli "stranieri", che devono acquisire uno status assimilabile a quello dei nativi, la città del futuro sarà sempre più multietnica, il che comporta problemi di convivenza difficile ma anche ampie possibilità di ricchezza culturale. È chiarissimo che una società fondata sulle differenze e sulle discriminazioni sociali non può che proiettare tali differenze nella città, ma questa ha svolto storicamente il ruolo di mitigazione (quello appunto di risarcimento sociale).

Un terzo passo verso l’affermarsi della città sostenibile è, quindi individuabili sia in un’azione di politica spaziale che tende a ridurre fortemente le differenze qualitative tra le diverse parti della città, sia in iniziative politiche e sociali finalizzate ad consolidare e ampliare i diritti di cittadinanza e a sviluppare i servizi sociali. Esso inoltre deve mettere in atto le iniziative idonee a permettere la convivenza multietnica nella città.

Il "patrimonio" urbano costituisce il connotato differenziato di ogni città, le modalità come questo patrimonio viene usato e conservato costituisce uno dei fattori della qualità urbana. Non si tratta tanto di un fatto identitario ma della promozione, attraverso l’organizzazione urbana e la valorizzazione (non economica, in questo contesto) del patrimonio urbano, della capacità di leggere il territorio (il proprio e qualunque altro), di affinare il proprio gusto estetico, di conservare per la memoria individuale e collettiva le esperienze delle generazioni passate consolidate nel patrimonio urbano.

Un quarto passo verso la realizzazione della città sostenibile è quindi quello della cura del patrimonio urbano.

Densità e intensità costituiscono elementi fondanti la condizione urbana. Oggi, tuttavia, per effetto combinato di diversi fenomeni (congestione della città, bassa qualità urbana, costo della città, ecc.) si può cogliere la tendenza all’urbanizzazione diffusa della campagna, cioè alla negazione dell’insediamento caratterizzato da densità e intensità. Anche quando questa forma di urbanizzazione diffusa finisce per caratterizzarsi come "città diffusa" (Indovina, 1990, 2003), ciò recupera il funzionamento della città, essa appare non soddisfacente su diversi piani: dal consumo del suolo, all’isolamento sociale, dall’esaltazione della mobilità individuale, al costo di gestione dei servizi, ecc.). Dall’altra parte le motivazioni che spingono verso questi processi sono abbastanza reali, il problema è quindi magari quello di convenire verso questa dimensione della dispersione affermando contemporaneamente la condizione di densità e intensità. La costruzione cioè di una rete di città interconnesse, ciascuna delle quali si presenti come un polo con qualche caratteristica di eccellenza, diversificate nelle loro caratteristiche (un esempio interessante in questa direzione è quello che è avvenuto nell’area metropolitana di Barcellona, Nel-lo, 2002; Indovina 19989).

Un quinto passo verso la realizzazione della città sostenibile, che in questo caso si sposa anche con una visione di territorio sostenibile, è quello di attivare delle politiche urbane, infrastrutturale, di distribuzione delle risorse, ecc. tese a consolidare densità e intensità, anche se in una visione che premi l’articolazione delle città e limiti la concentrazione di popolazione e capitale nella metropoli.

La città deve poter produrre ricchezza attraversi processi di trasformazione, processi di produzione di merci e di servizi. La sua dinamica sociale, il miglioramento delle condizioni di vita degli abitanti, i necessari scambi con altre città o altre zone di produzione sono possibili solo a partire da questo processo di produzione di ricchezza. Il fatto che questa "produzione" sia la base della crescita dell’entropia urbana non può suggerirne l’espulsione; tale crescita tuttavia non attiene tanto alla specifico urbano ma alla produzione e alla modalità con la quale questa si realizza, essendo chiaro che tali modalità possono essere modificate (progresso tecnico) a beneficio di una riduzione dell’entropia. L’articolazione massima, relativamente alla singola situazione, di tale produzione costituisce contemporaneamente, una vantaggio economico e della vita sociale: la città caratterizzata da monocultura economica da una parte è condizionata dal ciclo di quella sola produzione (si veda il caso di Torino) e dall’altra parte riduce la ricchezza sociale fatta di diverse esperienze produttive, di lavoro, di formazione, di preparazione culturale, ecc.

Il sesto passo per la realizzazione della città sostenibile è quindi quello di creare le condizioni per l’esercizio articolato delle attività di produzione di beni e servizi con l’attenzione all’uso di tecnologie in grado di ridurre l’entropia.

L’esercizio della mobilità urbana si scontra con l’esito negativo che essa produce: congestione, inquinamento atmosferico, inquinamento sonoro e visivo, occupazione di spazio pubblico, ecc. Che si tratti di una necessità pare ovvio, che questo esercizio si debba realizzare attraverso il trasporto privato e individuale pare meno ovvio. Ma in questo caso il meno ovvio è anche il più resistente. Se fosse vero che una consistente riduzione dell’uso del mezzo individuale e privato porterebbe dei benefici, sarebbe indispensabile spingere verso la direzione dell’incremento della mobilità con mezzi collettivi.

Il settimo passo per la realizzazione della città sostenibile è quindi quello dell’attivazione delle azioni per ridurre la mobilità con mezzi privati e individuale incrementando la mobilità con mezzi collettivi. Non si tratta tanto di ridurre la mobilità, ma al contrario di aumentarla ma modificando le modalità, ma garantendo nello stesso tempo condizioni non penalizzanti.

Il "metabolismo urbano" produce degli scarti, dei rifiuti, che sono tanto più numerosi e abbondanti in relazione alle tecniche di marketing, alle suggestioni che vengono dalla pubblicità e ai modelli di vita. Che si tenda attraverso il riciclaggio alla riutilizzo di risorse sembra una buona cosa, tuttavia va anche battuta la strada della loro riduzione, essendo parte consistente di questi formati da "inutilità", basti pensare solamente alla tipologia crescente degli imballaggi, spesso inutili ma sempre sovradimensionati. Come è noto i rifiuti costituiscono un dato fondamentale di consumo delle risorse, di inquinamento, di spreco.

L’ottavo passo per l’affermarsi della città sostenibile e quindi quello di affermare insieme politiche che portino alla riduzione dei rifiuti e al loro riciclo.

La città è il luogo privilegiato dove si affermano "modelli di vita", questo vale pur nella consapevolezza che un ruolo fondamentale in questa direzione è svolto dai mezzi di comunicazione di massa (prodotto urbano). È evidente che non tutti i modelli di vita sono compatibili con la sostenibilità, in particolare con riferimento al "consumo" (Immler, 1996) fermo restando che si possono cambiare tali modelli di vita insostenibili verso modelli sostenibili tanti più facilmente se i nuovi modelli aumentano il benessere individuale. Ovviamente l’interpretazione di tale benessere vale tanto, o forse di più, del consistenza fattuale. In linea generale si può affermare che modelli di vita più risparmiatori di risorse, meno di spreco, più attenti agli altri, più consapevoli delle interdipendenze, in sostanza più sobri e colti sono quelli più sostenibili.

Il nono passo verso la realizzazione della città sostenibile è quindi quello di promuovere, attraverso processi di educazione alla sostenibilità, per mezzo della diffusione della conoscenza e con azioni specifiche, modelli di vita più sobri e colti.

Se posso avanzare una giustificazione per questa esposizione un po’ scolastica questa va rintracciata nell’importanza attribuita al complessità urbana e alla ipotesi sostenuta in tutta la presente nota che in sostanza è proprio tale complessità urbana, nella sua interezza, che deve essere considerata sostenibile. Nuove tecnologie, nuove forme di organizzazione della stessa città, il risparmio di risorse non rinnovabili, le conquiste di nuovi diritti di cittadinanza, lo sviluppo di produzione e attività economiche in grado di far progredire le componenti sociali urbane, la difesa e qualificazione del patrimonio urbano, la omogeneizzazione delle diverse parti della città, la qualificazione ed espansione degli spazi pubblici, la qualificazione e anche l’espansione degli spazi verdi, la riduzione delle emissioni, ecc. costituiscono un tutt’uno. Né pare possibile costruire una gerarchia tra questi elementi costitutivi di una ipotesi di politica per la sostenibilità urbana, ferma restando la contraddizione dei due termini, questa sarebbe realizzata e si potrebbe dire auspicata solo se non mettesse in discussione la complessità urbana, comprensiva delle sue contraddizioni, e se ne garantisse la sua proiezione per le generazioni future.

 

4. Il "governo"

La sostenibilità da nessuno punto di vista si può considerare un esito, come dire, spontaneo, essa, non sembri una estremizzazione, costituisce una controtendenza all’andamento storico e spontaneo dei processi. Qualsiasi obiettivo di sostenibilità, quindi, andrà governato, esso cioè dovrà essere articolato in indirizzi, scelte, vincoli, premi, azioni, ecc.

La città formalmente e anche sostanzialmente è sempre stata "governata", nessuno ha mia avanzato l’ipotesi che essa possa essere un risultato spontaneo dell’azione di singoli individui alla ricerca della realizzazione dei propri obiettivi. Può essere, anche, mal governata, ma indiscutibilmente governata.

Nel contesto di cui ci si occupa in questa sede si tratta di qualificare questo governo come finalizzato alla realizzazione di una città sostenibile. Si cercherà di individuare quali possano essere le conseguenze di questo arricchimento di contenuti, tenuto conto che si tratta di rinvigorire il "riformismo urbano" che è sembrato sempre caratterizzare il governo della città e che oggi appare in netto regresso (Indovina, 1999).

"La pianificazione deve essere applicata agli insediamenti umani e ai processi di urbanizzazione secondo una visione che eviti effetti negativi sull’ambiente e sia volta ad ottenere i massimi benefici sociali , economici ed ambientali per tutti". Si tratta del 15° principio contenuto nella Dichiarazione conclusiva della Conferenza sull’ambiente umano organizzata dall’ONU, un principio che indica con chiarezza che la strada da percorrere sia quella di un riformismo urbano che incorpori gli aspetti ambientali. Si può, tuttavia, sostenere, che tale principio e le sue implicazioni sono disattese. Una concezione autocentrata dell’individuo, la perdita di ogni riferimento al "bene comune", la scarsità di risorse, la chiusura verso le "diversità", nonché le trasformazioni tecnologiche e dell’assetto economico e sociale rendono difficile l’operatività del riformismo urbano e ogni opzione di sostenibilità è vissuta come una necessità, anche entusiasmante, ma resa di fatto inagibile se fosse vero che essa ha necessità di un atteggiamento altruista. Su questo impasse varrà la pena di riflettere con attenzione: il massimo di consenso generalizzato per la difesa dell’ambiente e per la sostenibilità, si coniuga con il minimo della sua operatività, che cioè le politiche sostenibile brillano per il loro sostanziale insuccesso. Vale la pena di riflettere che ciò è anche la conseguenza del fatto "che i tempi della storia non possono essere i tempi della natura" (Cecchini, 1999).

Ma se la sostenibilità attentamente ponderata fosse da considerare come un’opzione necessaria e utile alla specie umana, non solo con l’ottica delle generazioni future, ma anche con l’attenzione per il presente (compreso il futuro molto prossimo), allora sarebbe necessaria una inversione di tendenza e il passaggio ad un’operatività concreta che sappia utilizzare strumenti articolati con efficienza ed efficacia.

In precedenza si erano individuati, quali mezzi da utilizzare per realizzare la sostenibilità in generale e quella urbana in particolare:

Il "governo" non può fare a meno di nessuno di questi, infatti quelli basati sulla cooperazione e sulla fiducia da soli rischierebbero di infrangersi contro gli scogli degli interessi differenziati e delle defezioni; dall’altra parte gli imperativi da soli rischierebbero l’inefficacia ove fondanti un sistema eccessivamente vincolistico non condiviso nei sui principi; quelli premianti da soli potrebbero risultare troppo costosi e alla fine essi stessi intrinsecamente non sostenibili. È proprio l’intreccio di questi diversi mezzi, in collaborazione con l’educazione e la diffusione culturale, che possono tradurre una "necessità" e anche un "generico" convincimento in un risultato coerente.

Non paiono convincenti quegli approcci che puntano tutto sulla "collaborazione" e su "accordi" (Marson, 1991; Balducci, 1995; Bobbio, 2000) a partire da una declamata inefficacia delle forme imperative; la complessità delle questioni che la sostenibilità urbana pone sono tali che non sono risolvibile sulla base di accordi. Se la sostenibilità fosse un obiettivo la sua realizzazione non potrebbe essere affidata soltanto alla buona volontà degli "attori" (spogliati da ogni "interesse"), ma piuttosto andrebbe considerata un costrutto politico in grado di mobilitare il consenso ma anche di imporsi.

Le tre famiglie di mezzi prima individuati, in concreto andranno articolati e specificati, così l’imperio può tradursi in vincoli, nella individuazione di procedure di controllo, in atti amministrativi, nel riconoscimento penale di fenomeni di defezione, in tasse e imposte, ecc; la collaborazione in accordi, patti, procedure di consultazione, ecc. Articolazioni di cui è inutile la specificazione in quanto esse derivano dal contesto e dagli specifici obiettivi.

 

5. Questioni disciplinari: l’urbanistica della sostenibilità

Forse a molti urbanisti le affermazioni che seguono potranno non soddisfare, tuttavia il punto di vista che si sosterrà non sè privo di fondamenti epistemologici e di riflessioni sulle pratiche.

L’urbanistica come disciplina risulta avere uno statuto debole, ma come pratica mostra effetti rilevanti. Questa doppia faccia la rende per certi versi affascinante, infatti la sua duttilità potenzia gli elementi di innovazione e di invenzione. Essa può essere caratterizzata, in sostanza, come scelta politica tecnicamente assistita, possiede cioè delle tecnicalità ma questi si applicano, con esiti differenti, a valle di una scelta politica esterna alla disciplina stessa. Il suo principale oggetto, il piano, da una parte è determinato dalle scelte politiche a monte e dall’altra parte, al di là della sua costituzione giuridica, si presenta sotto diverse "forme", in ragione delle scelte politiche. La flessibilità della forma "piano" costituisce per chi guarda dall’esterno, l’indizio principale di una costituzione disciplinare a statuto debole. Le ragioni del piano, per così dire, non stanno nel suo costrutto scientifico ma, soprattutto, nella sua importanza pratica, nel determinare l’utilizzazione e l’organizzazione dello spazio.

Che gli esiti di questa pratica non siano sempre felici dipende, con esclusione di gravi errori, dalle scelte politiche che stanno a monte e dal fatto che la sua realizzazione, per motivi intuibili ma che non possono essere affrontati in questa sede, risulta quasi sempre parziale: la trasformazione dello spazio, prevista, avviene senza la dovuta e, anche in questo caso, prevista dotazione di servizi, di infrastrutture, ecc.

Due, tuttavia, sono le responsabilità tecniche, in senso specifico, attribuibili agli operatori del settore: il manifesto disinteresse per la realizzazione del "piano" e dei suoi obiettivi (il piano in un certo senso doveva camminare da sé) e l’aver perso di vista la complessità della città a fronte di una ipotesi estremizzata di funzionalizzazione dello spazio.

Se il primo di questi errori forse si avvia ad essere corretto, oggi, infatti, l’attenzione all’implemetazione del piano è molto più esercitata e la costruzione del piano, in qualche modo, prevede anche la strumentazione per la sua attuazione. Il secondo errore, pur avendo trovato una sua correzione a livello culturale sembra sempre in agguato, il pericolo, cioè di una semplificazione della complessità urbana non è scongiurata. Mi permetto di affermare che anche l’opzione per la città sostenibile, ove non correttamente intesa, potrebbe sfociare anche in questo caso nella semplificazione di esaltare la sola componente ambientale rispetto alla complessità della città.

L’urbanistica, in ragione anche del generale dibattito politico e disciplinare, ha arricchito i suoi contenuti con i riferimenti che la società di volta in volta riteneva rilevanti o erano di fatto maggiormente rilavanti in ogni fase storica. Oggi l’ambiente e il concetto di sostenibilità sono costitutivi del processo di formazione del piano, spesso radicalizzando l’approccio e sacrificando, appunto, la complessità urbana, talvolta mistificando sotto parole qualificate una struttura di piano di fatto poco sostenibile.

Tuttavia una impostazione della pianificazione che abbia contenuti di sostenibilità risulta operazione complessa essa infatti, come più volte ripetuto, oltre a salvaguardare la caratteristica della città deve fare interagire lo sviluppo economico, lo sviluppo della comunità e lo sviluppo ecologico (ICLEI, 1995), non basta cioè un semplice approccio ambientalista, né la soluzione può essere trovata in processi di partecipazione, l’uno e l’altro utili, ma non sufficienti. Quello che diventa pressante in questa nuova dimensione, è una "riformulazione" della disciplina urbanistica e l’affermarsi di una "mentalità" e di un "agire" sostenibile (Savino, 2002). Qualora si volessero raggiungere risultati apprezzabili, sarebbe necessaria una dimensione analitica della realtà sempre più puntuale ed in grado di mettere in evidenza le interrelazioni, il che da un lato conferma la necessità di una formazione specifica del pianificatore territoriale e dall’altro impone che per tale formazione, nel nuovo contesto degli obiettivi di sostenibilità, non appare sufficiente una qualche sommaria conoscenza di questioni ambientali, ma, quello che andrebbe piuttosto coltivato dovrebbe essere un approccio metodologico molto attento alle interrelazioni, alla logica della complessità, alle dinamiche costitutive della realtà urbana.

Come si suole dire, la cassetta degli attrezzi del pianificatore deve essere arricchita non solo di conoscenze fattuali, ma anche di nuove metodologie, della capacità di modellizzare una realtà senza eccessive semplificazione e in grado di prevedere con una certa affidabilità la dinamica futura e gli effetti di ogni intervento. Così come più ricchi devono essere gli strumenti di intervento che devono risultare sensibili alle variazioni del contesto (quello che con semplificazione un po’ estremizzata e che mette in discussione non i mezzi ma gli obiettivi si chiama "flessibilità) e articolati proprio in ragione dei più complessi obiettivi che si vogliono realizzare. La semplificazione non sempre è buona consigliera come dimostra un’analisi attenta di quelli che vengono chiamano i "programmi complessi" (Savino, 2002b), mentre possono essere funzionali strumenti potenzialmente di maggior consistenza, come Agenda XXI, o la Valutazione Ambientale Strategica (VAS). L’Agenda XXI se vista con l’ottica della pianificazione pone dei problemi (Savino, 2002) per il suo approccio strutturalmente fondato quasi esclusivamente sulla partecipazione dei cittadini, anche se in alcuni casi esemplari essa è stata connessa con la pianificazione (Fregolent, Indovina, Musco, 2003), mentre la VAS rischia di non esercitare la sua influenza propositiva (Partidàrio, 2002) per una sua non corretta applicazione (Savino, 2002).

 

Opere citate

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