DIRITTO ALLA LEGALITA’ URBANA : LA PRIVATIZZAZIONE DELLA CITTA E LA CIVILTA’ URBANA DEI SERVIZI – Manlio Marchetta

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Introducendo la questione della prevalente tendenza in corso alla privatizzazione della città, occorre ribadire la responsabilità della cultura urbanistica generalmente intesa e la necessità di accelerare una profonda riflessione autocritica. Una cultura urbanistica che ha preteso e pretende tuttora, specie all’interno delle Amministrazioni, di comprendere qualsivoglia fenomeno con le lenti della spalmatura edilizia effettiva o solo virtuale e della densità volumetrica.

La città deve invece essere innanzi tutto considerata come organismo generale della vita comunitaria, come espressione della organizzazione delle attività sociali, come soggetta per natura propria alla prevalenza degli spazi e degli interessi pubblici rispetto a quelli privatistici. Anzi i legittimi e decisivi interessi privatistici stessi non possono trovare orientamento, consistenza e prospettive temporali a lungo termine se non nella esistenza e nella persistenza di un quadro organico, aggiornato periodicamente, di previsione temporale della organizzazione degli spazi e delle attività pubbliche e a valenza pubblica. Quadro che può identificarsi soltanto negli strumenti della pianificazione , nel piano territoriale e nel piano urbanistico, non opposti necessariamente ma decisamente diversi dalla sommatoria di proposte progettuali che nascono con l’impronta genetica dell’interesse privato.

Progredisce nella realtà la subdola marcia della privatizzazione della città generata da ondate di "piani che non sono piani" in quanto formati da mosaici incoerenti di trasformazioni urbane che innescano squilibri gravi, anziché perseguire quegli equilibri delle attività economiche e sociali di cui la città, i cittadini intesi come comunità di interessi generali e le stesse energie imprenditoriali hanno non secondaria ma grande necessità.

Progredisce nella realtà la palese marcia della privatizzazione della città generata da trasformazioni urbane che si usa definire concertate ma che, in genere, consistono in esasperazioni, peraltro nemmeno coordinate, della progressiva privatizzazione di ampi settori urbani redditizzi con conseguente incompatibilità anzitutto economica con la residenza ordinaria e con le funzioni d’uso giornaliero.

La città non è mai stata e non può considerarsi costituita soltanto da edifici ma è, invece, l’insieme complesso determinato dal bisogno diretto e indiretto degli individui sociali di realizzare se stessi, mediante lo scambio sociale fra le persone oltre che mediante lo scambio delle merci e dei prodotti. Perciò la città non dovrebbe essere sottoposta, come ancora si usa fare e con poca reazione, soltanto a regole relative alle dimensioni come quelle tipiche della maggior parte dei piani urbanistici in uso in ambito nazionale. E la distribuzione nello spazio urbano delle attività aventi maggiore flusso attrattivo non dovrebbe essere decisa sulle base di progetti di intervento che sottendono sollecitazioni all’assenso spesso contraddittorie.

Mentre, al contrario, il riequilibrio urbano può svilupparsi solo sulla base di ragionamenti e idee di innovazione non banali e fondati sul diritto ad una città equilibrata e ridefinita nelle gerarchie funzionali. I conseguenti piani urbani globali devono essere perciò dotati di precise previsioni della evoluzione e del riequilibrio localizzativo delle funzioni di servizio, in quanto soli strumenti caratterizzati da una visione generale dell’ interesse pubblico. Essi dovrebbero essere costruiti mediante strumentazioni e metodiche tali da consentire la massimizzazione dello scambio sociale, la massimizzazione della accessibilità e la massimizzazione della fruibilità temporale dei servizi urbani.

2)

La crisi grave di vivibilità conseguente alla privatizzazione deve essere affrontata affidando un ruolo ,centrale ma rinnovato nel profondo, ad un piano urbanistico che si fondi sulla valorizzazione delle differenze anziché sulla esaltazione degli elementi omogenei dalle conseguente nefaste sulla agibilità diffusa della città.

La progressiva privatizzazione della città rende evidente l’incremento fuori misura di una delle contraddizioni intrinseche e di tipo dialettico della città del XX secolo: quella tra accentramento e decentramento, su cui la città stessa fonda concretamente la propria esistenza e la propria identità.Ciascun utente della città affronta di continuo, in ogni ora della propria giornata attiva, gli elementi di tale contraddizione costitutiva: vorrebbe tutto alla propria portata ma contemporaneamente vorrebbe estranearsi dalla città .La scarsità, se non l’assenza, di solidarietà anche spaziale, di scambi interpersonali intensi costituisce una degli impedimenti per lo sviluppo positivo della qualità della vita e delle relazioni.

Tramite procedure semplificate e sburocratizzate ( quali l’autovalutazione di compatibilità) l’iniziativa di incentivazione della localizzazione di funzioni idonee nella rete di caposaldi urbanistici fondamentali riguarderà , sulla base di una consistente gamma predefinita di raggruppamenti funzionali, le parti maggiormente congestionate ovvero problematiche della città esistente. Tale impostazione comporta però il superamento del tipo tradizionale,statico e generico, di disciplina urbanistica relativa agli usi ammissibili nell’ambito di grandi zone di piano regolatore nonchè il superamento di atteggiamenti e consuetudini di controllo amministrativo divenute superflue.

Il sistema delle funzioni urbane di tipo generale ( o strategiche),cioè con utenza generalizzata, ampia, diffusa territorialmente, costituisce una sorta di reticolo delicatissimo ed in costante equilibrio precario ovvero in squilibrio.

Esso è composto di un complesso di nodi funzionali i cui calibri e le cui caratteristiche non possono che essere concepite unitariamente ed in modo da essere caratterizzati da un forte equilibrio dei pesi urbanistici. Invece nella realtà si insediano , al contrario, funzioni secondo logiche di appropriazione di plusvalore creato dal complesso delle energie urbane, forse comprensibili ma in ogni caso sempre settoriali e parziali, cioè non di tipo pianificatorio. Ne consegue che , per la privatizzazione vincente, la città soffre molto e richia il soffocamento.

3)

Occorre pertanto avviare una distensione armonica ed equilibrata del reticolo delle funzioni strategiche nel tessuto urbano della intera città e introdurre una disciplina preventivamente socializzata, non più di stampo solo quantitativo, che anzicchè proibire o imporre acriticamente, sappia orientare l’economia urbana sulla base di un quadro di conoscenze e di previsioni. Una disciplina di tipo nuovo che fornisca orientamenti solidi alle eventuali trasformazioni urbane ed ai nuovi innesti funzionali mediante la massima sapienza possibile e mediante parametri e criteri scaturiti da metodiche rigorose. Sono perciò utilizzabili parametri e criteri relativi alla compatibilità delle funzioni rispetto ai contesti immobiliari che li ospitano o li potrebbero ospitare, rispetto al contesto urbano, rispetto al quartiere, rispetto alla città intera nonché il grado di accessibilità sia attuale che programmato a medio termine.

Introdurre infatti una nuova metodica fondata sulla "equipotenzialità" (cfr.Piano delle funzioni di Firenze, 1998) significa sostituire del tutto le metodiche di determinazione delle regole (peraltro divenute insopportabili) che l'urbanistica tradizionale , tuttora corrente, ha imposto alla evoluzione della città con indicazioni di localizzazioni, di perimetrazioni, di frazionamenti, di indici dall'effetto devastante e quanto altro. Tutto ciò risulta di ben diverso peso pianificatorio (e di maggiore interesse generale) rispetto, ad esempio, alla sola considerazione dei complessi industriali che le proprietà desiderano dismettere ovvero dei soli più noti comparti urbani attualmente non utilizzati.

Così come risulta ben diverso dalla sciagurata ipotesi normativa consistente nel considerare dismissibile qualsiasi attività produttiva presente (in gran parte congruamente) all'interno del tessuto urbano, ipotesi che si configura coma una vera e propria incitazione a dismettere a danno dei caratteri multifunzionali che la città, salvi gli accorgimenti e le esclusioni del caso, deve mantenere per essere se stessa e non il risultato delle valorizzazioni immobiliari guidate.

Il modello prevalentemente funzionalista, diffusamente applicato nelle nostre città, con una aprioristica determinazione di bisogni settoriali, ha determinato un progressivo frazionamento, sia nello spazio che nel tempo, delle attività economiche e sociali delle città fino a preoccupanti eccessi dissocianti. Il criterio della separazione funzionale ha gravemente minato quei caratteri di "contemporaneità" e di "complessità" che costituiscono l’essenza delle "centralità" urbane.

In alternativa alla città disgregata e progressivamente privatizzata è perciò necessario applicare nuovi strumenti di orientamento che possano consentire alla città di essere sede del grado più elevato dello scambio sociale e della fruibilità spazio-temporale, in un’ottica di graduale ma consistente riforma dei rapporti tra funzioni e persone, fra spazi e persone, fra persone e ritmi temporali, fra tempi e spazi della città anche tramite la riforma radicale dei sistemi di mobilità.